Milena Milani, “La ragazza di nome Giulio”

Più volte, durante la lettura, mi sono chiesto: ma è proprio questo quel libro che è stato sequestrato, la cui autrice è stata processata e addirittura, in un primo momento, condannata a sei mesi di reclusione per «per offesa al comune senso del pudore»?

Cosa c’è di così disturbante in questo libro che, a scanso di equivoci, ho trovato meravigliosamente garbato? È forse l’idea e la rappresentazione della sessualità “libera” (e dovrei usare molte altre virgolette) di una donna? L’idea che anche una donna possa provare piacere fisico, perseguirlo, farne un punto fondamentale della propria ricerca? È forse la rappresentazione terribile (e veritiera) degli effetti malvagi di una società patriarcale sia sulle donne, sia sugli uomini, o piuttosto la consapevolezza dell’effetto rovinoso che l’educazione cattolica ha sulle persone, in particolare sulle donne, con le sue false ed ipocrite idee di purezza?

Se c’è un antagonista, in questo libro, è proprio padre Dario, il pretaccio, che con l’episodio del vestito rosso inculca per la prima volta in Jules, la protagonista dal nome prodigioso di questo racconto, l’idea di colpa. Non esiste un’idea più malsana di questa, per la sana crescita di una ragazza, o di chiunque altro. Un’idea talmente marcia da trasformare il carnefice, padre Dario, in una guida spirituale cui Jules, ormai infettata, si affida lungamente (e confusamente, perché ciò che in padre Dario trova non corrisponde a ciò che lei realmente prova).

L’idea del senso di colpa è la più grande crudeltà, il più grande abominio, che siano stati perpetrati dalla morale giudaico-cristiana ai danni dell’umanità: lo si combatta!

Il cattolicesimo e la società patriarcale rappresentati in questo libro, con la figura di Lorenzo che da pretendente stende la sua egida s’un’inconsapevole Jules fin da bambina e che pretende - sì, pretende, e mi accorgo ora della medesima radice di una parola innocente e di un verbo odioso - di avere in quelle parole infantili la sottoscrizione in perpetuum del proprio contratto, masticano Jules e la risputano come un bolo che non sa più quale forma assumere.

Lia, la riprovevole Lia, personaggio tragico ma negativo, per me assume l’aspetto di una reazione - condannabile, certo, ma comprensibile - a tale società che, bene inteso, incombe  inquietantemente anche sugli uomini: quello di Amerigo - un’altra delle figure maschili importanti per Jules -, secondo me, è un esempio commovente ed estremamente eloquente di quanto il patriarcato sia deleterio anche per essi.

“La ragazza di nome Giulio” - che titolo strepitoso! - è proprio un bellissimo libro, scritto splendidamente, in cui la protagonista afferra con due mani la testa del lettore per guardarlo dritto negli occhi fin dall’inizio: c’è un importante «io» nella prima riga del libro e Jules userà spesso questo pronome lungo tutto il testo, dando voce al bisogno di rendere tangibile la propria esistenza e di rivendicarla sotto i colpi annientanti del mefitico pudore cattolico, della supremazia maschile e dell’apatia materna: «E dicendo «noi», dicevo egoisticamente «io», sapevo qual era la mia malattia inguaribile, il mio dramma: credermi indispensabile, io al centro dell’universo, e gli altri che ruotano intorno a me, io come astro, una stella fissa, io più importante di mia madre, più importante di padre Dario, di Lorenzo, di Amerigo, io ambiziosa, io fulcro di non so che cosa, perno di non so che ingranaggio.»

No Jules, non è una malattia, questa, non hai colpa! La tua necessità di autodeterminazione non è dettata dal tuo egoismo ma da quello altrui.

“La ragazza di nome Giulio” ha uno sguardo che per molti deve essere difficile da sostenere, ecco la ragione della sua iniziale condanna. Aggraziato da splendide descrizioni di Venezia e di altri mari, e mai allontanandosi dall’atmosfera malinconica e rarefatta del ricordo, il libro fissa duramente gli occhi negli occhi. Jules guarda con durezza gli altri.

Sebbene questa sia una lettura che risale a qualche tempo fa, adesso, visti i recenti avvenimenti, la sua voce risuona di una forza rinnovata, sento che è questo il momento più adatto per parlarne. I problemi che raccontava nel 1964, che al libro valsero una condanna nel 1966, sono gli stessi problemi contro i quali oggi si lotta così strenuamente. Significa che sono ancora ben radicati, d’altra parte non si combatte ciò che è debole. Leggendolo io scommetto che proverete una sorpresa simile alla mia: fu condannato un innocente.

Perciò, questo innocente che ha subito il disagio violento degli uomini, dei maschi, lo si prenda, lo si legga di nuovo, diventi uno dei simboli o semplicemente ridica con la lingua della bellezza quello che si urla per le strade.