Hervé Guibert, “All’amico che non mi ha salvato la vita”

Hervé Guibert, nella foto ritagliata sulla bella copertina, lacrima due linee rosse rettilinee e verticali che dagli occhi attraversano il bianco puro della camicia e finiscono in un lago rosso, da far sembrare il bel Guibert immerso nel sangue. Quel sangue lo farà annegare perché Guibert continuerà a lacrimarlo; lo ucciderà.

Per chi è malato di HIV, ma intendo dire per chi lo è stato prima dei farmaci antiretrovirali, prima della conoscenza necessaria a placare il virus e a lasciarlo innocuo nel corpo, il sangue è uno dei luoghi, certamente il più lecito, in cui si manifesta la terribile attività del virus.

Lasciatemi fare il pignolo, in questa occasione si deve: oggi chi può accedere alle terapie non muore per complicanze dovute all’AIDS, che è la degenerazione, lo stadio finale a cui porta il virus dell’HIV. Chi ha l’HIV non ha l’AIDS (e bisogna ribadirlo ancora e ancora, visto che proprio pochi giorni fa, nel questionario consegnatomi dal dentista, mi sono ritrovato a leggere «indichi se ha l’AIDS»).

Oggi, chi ha l’HIV può tenere sotto controllo il moltiplicarsi del virus e la sua aggressività con farmaci che ne portano la viremia a zero: non rilevabile significa anche non trasmissibile. Oggi, chi ha l’HIV può non soltanto vivere a lungo senza subire i suoi effetti più devastanti, ma, se sottoposto alle giuste terapie, non può nemmeno trasmettere il virus ad altri.

Guibert però ha scoperto di essere sieropositivo negli anni ’80, quando ancora non esisteva una terapia, quando ancora avere l’HIV significava sviluppare inesorabilmente l’AIDS, quando avere l’HIV significava non avere argini contro il suo dilagare nel corpo, fino ad una spaventosa morte.

Martire, ecco Guibert in copertina, lacrimante come una madonna miracolosa e bello come una scultura di Tullio Lombardo, un Adamo gemente che ha consegnato alla sua contemporaneità il resoconto crudo e scandaloso della malattia, la vivisezione del proprio corpo: «Questo libro che racconta la mia fatica e me la fa dimenticare, e allo stesso tempo ogni frase strappata al mio cervello, minacciato dall’intrusione del virus non appena la piccola cintura linfatica avrà ceduto, mi dà ancora più voglia di chiudere gli occhi».

Si palesa la complessità del libro, spezzato da forze contrapposte, quella di scrivere e quella di togliersi la vita al motto di «la morte, non l’invalidità», composto da brevi capitoli giustapposti, non sempre in ordine cronologico, aguzzi e taglienti, schegge frastagliate di una vita infranta, un po’ diario un po’ racconto.

Guibert traccia quella che chiama la «mappa» della malattia, usa in parte un linguaggio clinico, quasi la lingua scientifica che Proust usava per scandagliare la psicologia umana. Illustra la perdita di controllo sul proprio corpo, racconta la fine della sua bellezza e quasi pare, lui sempre bello, non dare a questo evento tanta importanza, non provare lo stesso sgomento degli altri. Non censura il disfarsi tragico del corpo che trascina con sé l’angoscia sempre maggiore.

Il corpo ospedalizzato tende a non appartenere più al suo possessore, «perde ogni identità, diventa soltanto un pacco di carne inconsapevole, sbattuto di qua e di là, poco più di un numero di matricola, di un nome triturato nel frullatore amministrativo, privato della sua storia e della sua dignità», ma il racconto di Guibert non lo mortifica. Benché egli stesso ammetta di essere sospeso tra la stesura delle pagine e due fiale di digitalina - perché l’eutanasia è giusta, è dignitosa -, nonostante il racconto preciso del liquefarsi dei muscoli, nella malattia Guibert trova una «soave», sublime intelligenza.

L’AIDS - che in quegli anni rendeva altamente contaminante il sangue, lo sperma, la saliva, le lacrime, il sudore, ogni umore, dal momento che «non lo si sapeva bene all’epoca» -, bandisce «l’ingenuità da sartina» e «fissando il termine certo della nostra vita, […] faceva di noi degli uomini pienamente consapevoli della loro vita, ci liberava dalla nostra ignoranza». Nell’ignoranza della malattia, all’epoca ancora una sconosciuta emanazione di scimmie africane, l’unica cosa certa era la morte, vicina e inevitabile.

Guibert, come Adamo gemente, piange la conoscenza che paga con ogni cellula del proprio corpo e con uno sforzo sovrumano penetra la sublime intelligenza dell’AIDS, trova in essa quasi un piacere eletto, il privilegio della consapevolezza, e ne trae sia le pagine appena lette sia la forza necessaria al comporle.

Guibert è un aristocratico del pensiero e l’aristocrazia in lui - che si sa, come l’HIV, si trova nel sangue - gli permette di diventare un principe dopo che il dolore gli ha sgretolato la terra sotto ai piedi e gli ha spalancato l’abisso.

Il virus, però, non sublima automaticamente le vite, la malattia di per sé non divinizza, deve incontrare un terreno fertile per far fiorire le grazie della letteratura.

È questo il motivo per cui “Febbre”, il libro di Jonathan Bazzi finalista al Premio Strega 2020 che racconta in maniera autobiografica del contagio da HIV e delle sue manifestazioni sintomatiche - appunto, la febbre - e al quale mi è venuto spontaneo pensare, pur restando un libro coraggioso e importante, è un libro fondamentalmente molto brutto. Bazzi non ha il rango del grande scrittore, né del grande pensatore. Guibert, invece, sì.

Perciò ecco che il primo fa un resoconto medico della malattia, dei sintomi, con lo stesso valore letterario di una cartella clinica, e quando si permette di elaborare i propri pensieri per trarne un succo significativo non arriva a grandi traguardi e deve condire le sue riflessioni col racconto della sua vita nella periferia milanese.

Guibert, di tutt’altra altezza, si estirpa l’arte dal corpo; la letteratura gli cresce succosa come un frutto irrorato dalla linfa mortifera che gli scorre nelle vene, e ci offre in olocausto questo libro superbo.

Due parole, infine, sull’edizione (GOG 2022).

È il primo libro che leggo di questa casa editrice e devo dire che quelli di GOG edizioni sono stati davvero molto bravi. Nonostante qualche refuso che in questo testo complesso purtroppo si fa notare, ma che può essere corretto nelle prossime ristampe - e che loro, da bravi ruffiani, giustificano nel migliore dei modi, facendomi sorridere e rendendomi più indulgente -, bisogna che io faccia loro questo complimento.

Ho già abbondantemente elogiato il valore estetico della copertina; al tatto la carta è piacevole, la stampa è chiara, gli occhi non soffrono, i caratteri hanno eleganza.

Ma bisogna essere entusiasti soprattutto per i titoli che quelli di GOG hanno in catalogo: “All’amico che non mi ha salvato la vita” ne è un vessillo. Il loro progetto, che vuole prendere le distanze dal canonico mondo dell’editoria, è decisamente provocatorio e degno di attenzione e supporto. L’augurio è quello di riuscire e di continuare a mirare alla elevatissima qualità  di contenuti e di estetica. D’altra parte la forma è contenuto.

Comprate quindi questo splendido libro, fidatevi.