Un serpente all’origine della misoginia

I serpenti non sono simpatici.

Silenziosi, inquietanti, famelici. La Bibbia li ha eletti a creature del male, il Diavolo incarnato, riscoprendo le proprietà terapeutiche del suo antico culto solo nell’episodio dell’erezione del serpente di bronzo. Eppure, non è solo la religione cristiana ad averci fornito una serie di rocciosi preconcetti nei confronti di questo animale. Anche il linguaggio – con le sue figure e le sue metafore – ha accumulato nella storia un insieme di termini la cui accezione negativa fa riferimento a caratteristiche divenute implicitamente “serpentine”:

Il serpente è insidioso, come una persona con doppi fini.

Il serpente è strisciante, come una persona viscida.

Il serpente è velenoso, come una persona crudele.

Ogni volta che rapportiamo questo animale all’umanità, l’antropomorfismo di questo raffronto rivela un aspetto della nostra specie che si vorrebbe estromettere, schiacciare come fa la Madonna nell’iconografia dell’Immacolata concezione con la testa del demonio serpentino sotto i piedi. Eppure sono là quelle immagini, umane (pur)troppo umane, mentre gli animali, nella loro realtà, in questa concezione antropocentrica non riescono che a restituirci la nudità del nostro sguardo. Ma la nostra cecità nei loro confronti non è senza conseguenze.

Eva, si sa, sarebbe stata sedotta dal Diavolo, ma prima di lei un’altra donna, Lilith intratteneva un rapporto ben più stretto con la contro-divinità serpentina. Perché non è l’unica donna-serpente nelle storie, nelle mitologie, nelle leggende che abitano le nostre culture? Perché così spesso la sensualità femminile è stata associata alla pericolosità di un animale che si disprezza, o piuttosto, si odia. Alla propria nemesi, inoltre, gli si dona un aspetto mostruoso (e affascinante, perché in fondo si ama sempre un po’ il proprio nemico) e moralmente inferiore: in questo scontro col male non è solo la forza che deve trionfare, ma anche la giustizia.

Esploriamo allora, attraverso alcuni casi studio prelevati dal mondo del cinema, dall’arte, dalla letteratura, come le spire di questo discorso che intreccia donna e serpente in un abbraccio fatale possa infine essere sciolto, per liberare entrambe le figure da un giogo pericoloso che li imprigiona in una condizione sia di vittima che di carnefice.

 

L'incantatrice di serpenti, Henri Rosseau (1907).

 

Draghi, Urobori e Femme fatale.

 

I serpenti sono ovunque, dai rituali antichi ai prodotti di intrattenimento. Non è un caso se la scelta di J. K. Rowling, nell’universo di Harry Potter, di associare i cattivi con la casa dei Serpeverde abbia funzionato così bene nell’immaginario collettivo. Aby Warburg nelle sue ricerche confluite nel testo e nella conferenza intitolata Il rituale del serpente (1923) ha rivelato come la rappresentazione di questo animale – nell’arte e nei riti – conduce, nel migliore dei casi, a una forma di confronto con le forze più incontrollabili della natura. Il male, la natura… cosa manca a questo trittico? La figura della donna, così spesso associata a questi due elementi, sia da storie antiche che da cliché e luoghi comuni.

Medusa si impone come la più celebre icona pagana legata al tema del serpente nel Pantheon greco, sebbene vi siano molte altre creature e divinità serpentine. Sigmund Freud vede nel suo sguardo pietrificante una metafora ante litteram del complesso di castrazione, mentre Jean Clair scrive che l’immagine della sua testa serpentinata derivi direttamente da uno spettacolo molto comune nella Grecia antica, cioè da nugoli di serpenti appesi e attorcigliati sopra agli ulivi. In questo scenario, se i serpenti si confondono coi rami, e se la testa col tronco dell’albero, allora il corpo di questo mostro femminile è quasi interamente sepolto proprio nella terra. A questo proposito, non stupisce che molte divinità antiche associate alla femminilità e ai serpenti venissero definite ctnoie, nate dalla terra, quella stessa terra dove sorge la vita e si seppelliscono i morti.

Un'immagine di Nüwa

       Una lettura troppo negativa, tuttavia, rischia di appiattire il discorso. Il serpente nel mito greco era legato anche a valori positivi, come alla medicina e al suo Dio, Asclepio, e in altre religioni e culture fiorivano immagini materne legate a questo animale che, e vederlo, sembra così poco materno. Penso a una scultura celebre, come la Dea dei serpenti di Creta, o alla dea Nüwa, che nella mitologia cinese avrebbe creato gli esseri umani usando il fango del fiume giallo, e in alcune versioni, si dice che avesse un corpo parzialmente serpentesco. L’Uroboro – simbolo dell’infinito – è un serpente che si morde la coda, e unisce le polarità del maschile e del femminile, della terra e del cielo così come facevano le Dee Madri prima che arrivasse il cristianesimo con il Diavolo serpentino, da una parte, e la Madonna dall’altro, preannunciando alla sua metamorfosi in furioso drago, destinato a essere sconfitto da un coraggioso cavaliere.

La Dea dei Serpenti di Creta

Cleopatra, Guido Reni, 1640–1642.

       Un uso “ricreativo” di questa simbologia, oramai indissolubilmente associata al male, lo si vede nella tradizione artistica, che spesso ha sfruttato questo animale per esaltare la sensualità della donna. Lo vediamo nel tema iconografico della morte di Cleopatra, dove spesso questo animale incontra senza pudore il corpo della regina, esaltando i seni e l’erotismo raffinato ma oscuro della scena. Eppure con la morte di questa donna bellissima torniamo alla testa di morta di Medusa, così efficacemente rappresentata da Caravaggio, esaltando l’orrore non soltanto della figura ma anche del gesto. Mieke Bal, a proposito di questa potente immagine, scrive:

 

La Medusa caravaggesca può offrirci una prima panoramica delle questioni abbozzate. Medusa guarda altrove, ed è lei a sembrar terrorizzata. Che cosa mai potrebbe spaventarla, lei che non può nemmeno vedere i terrificanti serpenti che le cingono li capo? (…) Medusa guarda altrove per farci guardare altrove insieme a lei, per sfuggire al mito che la incatena e liberarsi dal suo spaventoso ruolo. Medusa "parla", visivamente, in funzione esortativa, chiamando"ti" cercare con lei la vera fonte del terrore, cioè l'ideologia che tramuta le donne in mostri.

 

Scudo con testa di Medusa, Caravaggio (1598).

 

Il serpente come contro-veleno

 

Shin'ya Tsukamoto nel film A snake of june – Un serpente a giugno (2002) racconta una storia dove questo animale evocato dal titolo è completamente invisibile. Tutto nasce da una suggestione del regista, che immagina che nel corpo di ogni donna scorra un serpente, e che questo si leghi alla sua sessualità.

La trama del film presenta la storia di una psichiatra che subisce un’operazione di (simil)stalking da parte di un suo ex paziente, che in precedenza aveva salvato dal suicidio. Quest’ultimo le vuole salvare a sua volta la vita, come sorta di ringraziamento, ma utilizzando un approccio decisamente anticonvenzionale. L’uomo, infatti, la fotografa nuda di nascosto, e compie altre azioni sul genere, per mostrarle la sua bellezza e rivelarle che non può sottomettersi alla dinamica del rapporto oramai inaridito con suo marito, che senza rendersene conto la sta condannando a morte. La donna, infatti, soffre di un tumore al seno che non intende curare per paura di rovinare il proprio corpo, ultimo baluardo che la lega a quell’uomo che ancora ama. L’intervento dell’ospite indesiderato mira dunque a risvegliare quel serpente invisibile che dorme dentro di lei, e guiderà verso la rinascita del desiderio della donna, un desiderio che si unisce a quello di voler lottare per curarsi e provare a guarire.

È vero, il regista sfrutta un’immagine erotizzata della donna per costruire una trama che esalta un desiderio viscerale ma molesto. Quella che compie il suo paziente è violenza? E se sì, è una violenza fatta a fin di bene? Questo contro-veleno, che risveglia la funzione benefica del serpente, legata alla medicina e alla vita, non somiglia pericolosamente al male? Il confine fra i due ordini di senso – quello del bene e del male – in questo caso è sottile, ma la linea di demarcazione fra i due domini non è netta, anzi, è molto sfumata. Strisciante, come un serpente che avanza su un prato d’erba, il dubbio sibila all’orecchio della coscienza dello spettatore dopo la visione di questo film – che ammalia per la sua bellezza e provoca per i temi trattati – ma non si sa se a risvegliarla dalla sua presunzione di sapere sia il sopraggiungere di un senso di colpa o una cupa consapevolezza che getta un’ombra sulla natura umana e sulla sua cultura.

Una scena del film

 

 

La raccolta dove è tratto il racconto Il boa

Il serpente, tra desiderio e vendetta

 

Nel breve racconto Il boa (1954) di Marguerite Duras, la scrittrice francese associa il serpente alla sessualità dirompente, stavolta in una veste decisamente più violenta rispetto al film di Tsukamoto.

La storia parla di una bambina orfana con poche prospettive future, che va la domenica allo zoo per assistere alla scena di un gigantesco Boa che divora un pollo vivo, uno spettacolo al contempo spaventoso e esaltante. Qui non siamo più nell’erotismo sensuale e compiacente del piccolo serpente che accarezza i seni di una donna - nuda e con gli occhi chiusi - o nell’immaginario mostruoso della Gorgone da decapitare o della dragonessa da impalare con una lancia. Duras riflette sulla tragicità del desiderio, che lacera e conduce alla violenza verso sé e gli altri, rappresentato dal Boa che divora la sua preda, e del triste destino che viene riservato a chi non accetta questa crudele realtà, scrivendo:

 

Come avrei potuto non attribuire al boa quella mia tendenza a cogliere il lato fatale del carattere, dal momento che il boa ne era, ai miei occhi, l’immagine perfetta? Grazie a lui, nutrii un’irriducibile simpatia nei confronti di tutte le specie viventi, l’insieme delle quali mi appariva come una necessità sinfonica, tale cioè che la mancanza di una sola fra esse avrebbe potuto mutilare irrimediabilmente l’insieme. E provavo un senso di diffidenza verso chi si permetteva di formulare giudizi sulle specie cosiddette “orribili”, sui serpenti “freddi e silenziosi”, sui gatti “ipocriti e crudeli” eccetera”.

 

e ancora, continua:

 

Una sola categoria di esseri umani mi sembrava rientrare a pieno titolo in quell’idea che mi facevo della specie, ed erano precisamente le prostitute. Allo stesso modo degli assassini, le prostitute (che immaginavo battere la giungla metropolitana a caccia di prede che poi consumavano con l’imperiosità e l’impudenza dei temperamenti segnati dalla fatalità) m’ispiravano grande ammirazione, e soffrivo anche per loro a causa della scarsa considerazione in cui erano tenute.

 

Questo, poiché secondo la scrittrice il serpente è la sola la specie che, in assoluta innocenza, si assume tutta la responsabilità del crimine. Allora forse verrebbe da dire che nel nostro immaginario il serpente è antipatico, e non può che essere tale, proprio perché non c’è nessuna buona ragione per non esserlo. Il serpente, dismessa la sua forma di angelo caduto, crudele e ribelle alle leggi, ha accolto tutto quello che l’umanità ha rifiutato, anche suo malgrado, parente prossimo delle donne svilite e oggettificate dall’uomo, come del ladro e dell’assassino. In questa veste, il suo simbolismo diventa il miglior alleato di chi – escluso – vuole ottenere una rivincita su sé stesso e sul proprio mondo, consapevole che la condizione di potere di chi detta la legge non è retta dalla giustizia, ma dal privilegio. E così che il serpente nelle storie e nelle narrazioni può emanciparsi dal suo vecchio ruolo, creandosene uno nuovo che sfugge alle polarizzazioni bene/male grazie a una rinnovata alleanza con il femminile, stavolta a servizio di un desiderio anarchico e non del godimento maschile.

Non è solo la Madonna a fare il “lavoro sporco”. Un’antica festività – come quella dei Serpari di Cocullo - racconta di come San Domenico, protettore dal morso dei rettili avrebbe ereditato le caratteristiche di un culto di una dea ctonia, Angizia, venerata nell’antica Marsica. Altri santi, hanno assunto questo significato repellente per i serpenti, come San Patrizio, responsabile secondo la leggenda dalla sparizione di quest’animale nell’Isola irlandese.

       Nel nostro panorama contemporaneo, sempre più votato all’intermedialità e all’interattività, le storie del passato si rinnovano muovendosi su orizzonti espansi e fluidi, come quelli dei videogiochi. Shin Megami Tensei, una saga nipponica che ha fatto la storia del genere, debuttando nel lontano 1989, racconta di un mondo dove divinità, figure e demoni dei miti, della religione e del folklore prendono vita, uscendo dall’inconscio collettivo dell’umanità. Arrivata oramai al quinto episodio della seria, visto nel 2022 la sua storia aveva presentato la vicenda della reincarnazione del Dio Toro, figura primordiale alla base di culti virili (attraverso le divinità di Amon, Baal, Zeus… fino al Dio cristiano, che portano avanti l’eredità del “dio cornuto”) ora nel 2024, il giogo risorge con un sequel, che porta alla luce una contro-storia. Shin Megami Tensei V: Vengenace racconterà proprio la rivincita della Dea Serpente, e darà la possibilità ai giocatori di poter scegliere un epilogo in cui ricostruire il mondo parteggiando per tutta la lunga serie di dee madri escluse dalla storia che, alla fine dei tempi, vogliono una sola cosa: vendetta.

Il serpente può e deve essere cattivo, ma bisogna lasciargli sempre la possibilità di esserlo oltre le nostre aspettative.