Bernardo Zannoni, “I miei stupidi intenti”

In quarta si legge, ad opera di Marco Missiroli, che questo è un romanzo in stato di grazia. Io di grazia non ne ho trovata affatto, anzi, direi che uno dei maggiori difetti di questo libro sia proprio la sua totale mancanza di grazia.

Il libro è sgraziato come possono essere le enormi zampe di un cucciolo, così da continuare sull’orma della metafora animalesca. Infatti, grande difetto del romanzo, per me, è la sua profondissima ingenuità. Ecco, dovendosi trattare di un libro che utilizza animali parlanti ed umanizzati come protagonisti, tale ingenuità sarebbe potuta essere l’arguta intuizione dello scrittore che, così, avrebbe reso la difficile sintesi fra la coscienza di sé del tutto umana con la mancanza di autocoscienza del regno animale.

Ahimè, temo che tale trovata sia semplicemente il modo di scrivere di Zannoni, ignaro della possibilità che gli è passata fra le mani. Temo, inoltre, che egli abbia deposto più uova di quante ne potesse covare: c’è tanta carne messa al fuoco, qui, e sembra che lo sviluppo di temi tanto complessi gli sia sfuggito di mano per tornare a galleggiare sulla superficie come il corpo morto di un pesce.

Lo stile non è di quelli che preferisco (e qui m’incaponisco sullo stato sgraziato del libro). Sempliciotte seconde persone singolari si aggirano qui e là (ma solo nelle prime pagine, per fortuna). Potrei anche arrivare a pensare, generosamente indulgente verso Zannoni, che il discorso in seconda persona singolare crei un effetto particolarmente solleticante, trattandosi di un animale che dice “tu” ad un essere umano, avvicinando la sua esperienza ferina alla nostra umana, ma ancora una volta temo che sia semplicemente una “svista” dell’autore, un modo di scrivere che molti “giovani” hanno, che io trovo irritante e che egli avrebbe potuto sfruttare, utilizzare e meglio piazzare se avesse voluto davvero creare questo cortocircuito fra il suo personaggio animale e noi lettori sapiens sapiens.

Un po’ melliflua la scrittura, con frasi brevi senza una grande elaborazione (si badi bene, non manca elaborazione a causa della brevità delle frasi, casomai credo sia il contrario, la brevità delle frasi è un sintomo di questa mancanza di elaborazione), nonostante si parli di grandi cose e profonde: sesso, istinto, ragione, morte e dio. Oddio, quanto ce n’è di dio! Trabocca di dio questo libretto, ce n’è tantissimo, quasi ad ogni pagina, ed io non l’ho più sopportato.

Far incontrare dio e gli animali non credevo potesse creare una tale noia, una tale sequela di banalità, tanto che sarebbe stato meglio chiamare dio “grande ghianda” o qualcosa di simile e dare una scusa plausibile all’ingenuità del rapporto degli animali col divino. Invece temo, per l’ennesima volta, che il discorso fosse serio e quindi, purtroppo, suscettibile di biasimo.

Poi, o mio grande orrore, forse la mia malizia - e spero davvero sia solo questa la causa - mi fa leggere questa metafora evangelizzante con un occhio di sospetto perché guarda caso, guarda davvero caso, fra tutti i passaggi biblici citabili si va a pescare nientepopodimeno che Sodoma e Gomorra distrutte per “essersi ribellate” a Dio.

Permettetemi, ma fra questi eterosessualissimi accoppiamenti animaleschi-naturali-procreatori il passaggio citato - oltretutto sbagliando il concetto di ribellione - mi fa un pochino accapponare la pelle. Ma magari sto sbagliando, la malizia è mia e Zannoni ha la scaltrezza di utilizzare quell’ingenuità di cui prima come arma fondamentale del suo primo romanzo. Se così fosse dirò semplicemente: non mi è piaciuto.