La pesca dell'Esselunga. Storia di un frutto al di là della polemica

 

Molte persone quando è scoppiata la polemica sul caso dello spot di Esselunga, al di là della profusione di articoli pubblicati sul web, ci hanno visto semplicemente una pubblicità. Gli spot televisivi sono belli, brutti, noiosi… spesso finiscono per essere tutti uguali, anonimi nel comune tentativo di distinguersi l’un l’altro. Perché dargli una simile importanza? Davvero queste cose contano così tanto, alla luce delle gravi e laceranti crisi del nostro presente, che bisogna scrivere articoli su articoli per trovare una quadra, come sto facendo anche io, sprecando tempo e parole. No, non sono così importanti, e non bisognerebbe dargli questo valore, un peso tale sul dibattito pubblico da capitalizzare l’attenzione generale, al punto che perfino la presidente del consiglio Giorgia Meloni debba sentirsi interpellata quasi esplicitamente, finendo per dare il proprio parere (senza neanche argomentare, fra l’altro, come a dire: io vi dico che è bello, quindi tocca crederci e basta). Ma la realtà della comunicazione, d’altronde, ci offre questo. Non possiamo negare di esserci imbattuti nell’ennesimo caso mediatico, probabilmente sterile, che ben presto passerà di moda. E dunque mi dico: perché non cogliere la palla al balzo anziché ignorare snobisticamente questo nuovo dibattito. Perché non truffarcisi proprio dentro? Prenderlo di petto, affrontarlo nella sua esplicita futilità. Questo, mi dico, per provare di risalire alle radici di questa ossessione condivisa, per cercare di tirarne fuori qualcosa, una riflessione per l’appunto, che di fatto è il contrario di un’ossessione, in quanto quest’ultima per sua intrinseca natura si autoalimenta in un loop infinito di ripetizione e frustrazione. E perché non partire proprio dalla pesca, afferrarla al volo, come un testimone, in questa staffetta del giornalismo del web, nella corsa all’articolo più polemico.

 

Una pesca è solo una pesca?

 

Non tutti gli alimenti hanno una “storia”, eppure alcuni di essi (e non a caso) hanno una lunga tradizione alle loro spalle. Un’Immagine, una simbologia, un’origine mitica. La frutta, in particolare, si presta a raccontare storie legate al corpo, alla sessualità, al desiderio. Lo vediamo nella letteratura, come all’interno della Bibbia, e nella storia delle immagini, come nella tradizione artistica. Questo, già dalle prime forme di rappresentazione offerte delle culture più antiche, arrivando fino ai moderni immaginari mediatici, che includono, appunto, il mondo della pubblicità.

Il frutto in questione ha delle caratteristiche molto riconoscibili. È dotato di una leggera peluria (che crea un certo fastidio a determinate persone, provocando addirittura allergie cutanee), di una forma sensuale che rimanda sia alla rotondità delle natiche sia a delle forme femminili, di un colore che richiama il rossore della pelle, e – infine – di una consistenza e un sapore succoso che evoca esperienze di godimento. Può piacere o non piacere, naturalmente, questo non importa. Il gusto è soggettivo, ma il rapporto che questo frutto ha con la nostra storia, con il nostro modo di raccontare vissuti personali e sociali, dimostra la ricchezza del rapporto che il cibo intrattiene con il corpo, la natura con la forma umana e la cultura con tutti gli elementi, anche più prosaici, che si legano alla nostra quotidianità. Perché la pesca, come tutti gli altri frutti, ha finito con l’essere “degradata” a semplice alimento pseudo-decorativo, che si correda a una normale cucina borghese, natura morta fra tante. Ma ripercorriamo brevemente la sua vicenda, per capire perché la scelta dello spot di Esselunga non sembra essere affatto casuale.

Madonna Lochis, Crivelli (1450 circa).

 

La pesca e la (Ma)donna

 

Nella storia iconografica dell’arte occidentale la pesca ha avuto molteplici, ma per certi versi affini, significati. Innanzitutto, per quanto riguarda l’eredità pagana, anche se questo frutto non è stato legato canonicamente al culto e all’immagine di Afrodite e Venere, per ragioni facilmente intuibili si presta bene a raccontare la bellezza delle donne, e non solo. Gli alberi del melo, dell’arancio e del pesco venivano rappresentati nelle case patrizie romane di Pompei per raccontare universi intimi di piacere. Nello scenario contemporaneo, invece, Georgia O’Keffe in Peach and Glass (1927) sfrutta l’immagine del frutto per evocare una dimensione calda e sensuale, così come usa solitamente i fiori per evocare gli organi genitali femminili. In questi giorni sul web abbondano meme che parodiano la pesca dell’Esselunga citando la celebre scena del film Chiamami col tuo nome (2017) di Luca Guadagnino, in cui il frutto vale come sostituto del corpo dello studioso americano, interpretato dal controverso Armie Hammer, per il giovane e innamorato protagonista.

La pesca di Chiamami col tuo nome

Eppure, paradossalmente, la pesca come attributo, nella tradizione cristiana, è stata correlata anche alla Madonna. L’immagine di Maria con Gesù Bambino, con quest’ultimo che gioca o trattiene in mano una pesca, rinvia a scenari tutt'altro che sensuali, mostrando invece un ideale di naturale e organica castità. Questo lo vediamo con Plinio, il quale afferma nella Naturalis Historia che essa si componga di tre parti (frutto, nocciolo, seme), preludendo a significazioni simboliche che la assoceranno successivamente ai concetti di trinità e immortalità. La Madonna Lochis (1450 circa) del Crivelli mostra, non a caso, tre esemplari di questo frutto, che racchiudono la composizione in un triangolo. Cesare Ripa nell’Iconologia la riconduce all’immagine allegorica della verità, a causa della forma del frutto e della sua foglia che rinvia a un cuore e una lingua.

Georgia O’Keffe, Peach and Glass (1927).

Per quanto possa far ridere, queste due caratteristiche femminili sacre e pagane sono magistralmente sintetizzate da un personaggio molto noto nella storia dei videogiochi. La principessa Peach, la principessa pesca, nella saga di Super Mario, una bella bionda vestita di rosa pesca. L’eroina solitamente figura, nelle molteplici narrazioni che la coinvolgono, sia come donna desiderabile, una Venere (in quanto oggetto di interesse sentimentale del protagonista), sia come donna impossibile, una Vergine (in quanto ogni volta si tratta di salvarla dal cattivo di turno, rendendo infinita l’attesa del coronamento amoroso).

La principessa Peach

 

Marketing, conformismo e polemica

 

Esselunga aveva già arrischiato a produrre una sorta di film-pubblicità capace di uscire dagli schemi della tv italiana. Il mago dell’Esselunga (2011), regia di Giuseppe Tornatore era, in questo senso, tanto “nazionalista”, vicino a un racconto edificante (con quel tocco di magia che si riscontra nelle produzioni televisive natalizie), quanto “esotico”, attraverso un volontario o involontario rimando alla demenzialità degli spot giapponesi, che si nutrono di un consapevole quanto kitsch/trash/cringe gusto per l’eccesso. Il tentativo, all’epoca, si era dimostrato un flop, mirando tuttavia nell’obiettivo di far parlare di sé. Ora la nuova succosa proposta si pone come un racconto agli antipodi dalla favola idillica di Mulino bianco, mostrando – piuttosto – una famiglia grigia e reale, che si confronta con il “dramma” di un divorzio.

Ancora una volta, al di là della presunta qualità autoriale del prodotto, tutto si inserisce perfettamente nelle tare sistemiche del mondo della comunicazione. La polemica “frutta” – è il caso di dire – e molto. Due schieramenti opposti, tante views, tanto successo, al di là dello schieramento che finirà, infine, per prevalere.

Parlarne, anche qui, fa il gioco della strategia di marketing? Certo, ma io ho deciso volontariamente di ignorare la mia implicita complicità con questo giochino. La polemica è scoppiata già da qualche giorno, e ora non sono rimaste che le “ceneri” di questo fuoco di paglia sul punto di estinguersi. Quindi, ora che i grandi nomi della politica, del giornalismo e del web hanno detto la loro, perché non tirare le somme di quello che ci racconta questa vicenda.

 

Una possibile interpretazione

 

La vicenda familiare raccontata dallo spot pubblicitario potrebbe riassumersi così: una madre divorziata, stanca e un po’ troppo pragmatica (d’altra parte non è facile essere madri oggi), assolve con distrazione ai suoi doveri genitoriali nei confronti di una figlia esposta a un, neanche troppo latente, stato di sofferenza, totalmente misconosciuto agli occhi della donna. La piccola, in effetti, era riuscita a sfuggire al controllo materno, che la ritrova al reparto frutta del supermercato. La bambina prende con sé una pesca (strano che questa non si sfoghi come molti coetanei con biscotti e cioccolata), conservandola invece di mangiarla. La scena cambia, siamo nella loro abitazione. La figlia decide di donarla al padre, affermando a quest’ultimo che si tratta di un regalo da parte della madre. Questo avviene quando arriverà il momento di andarlo a trovare, fuori dalle mura domestiche naturalmente. Dove? In una macchina, quasi che il genitore si trovi sul lastrico, abbandonato come un cane. Quando vediamo l’uomo, infatti, con la sua espressione dolente e bonaria, è impossibile non fare un raffronto con la durezza materna. Capiamo che è stata lei, cattiva o semplicemente egoista, a chiedere il divorzio. Lui tornerebbe volentieri in quella confortevole casa da cui evidentemente è stato cacciato (l’affidamento è implicitamente stato dato alla madre), ma è proprio allora che il magico miracolo della retorica si avvera. Contrariamente a quanto afferma Paolo Crepet, che parla impropriamente di neorealismo (?) descrivendo questa regia, qui non c’è nessun gusto documentaristico, nessuna pretesta di distacco e oggettività. Qui tutti si svolge, piuttosto, col preciso scopo di emozionare, di commuovere e (volontariamente?) di far indignare. La metafora della pesca è in questo senso emblematica: Visconti, De Sica, Rossellini non si sarebbero mai serviti di uno stratagemma così melenso per raccontare un “dramma” che nel loro cinema, invece, si mostra attraverso testimonianze crude e indigeste. Lì non c’è spazio per il languore zuccherato di un frutto troppo maturo.

Eppure, nello spot di Esselunga il frutto non è solo metafora, ma anche simbolo. Metaforicamente, alla luce della storia iconografica della pesca, si relazione al corpo della donna. La bambina dice: papà io ti offro mamma. Non mi importa di quello che lei abbia scelto in quanto donna (il divorzio in questo caso), io ti voglio solo dire che si dovrebbe decidere cosa fare del suo corpo al di là della sua volontà, perché ogni donna che decide di essere madre subordina la sua identità alla condizione della maternità. Una visione decisamente tradizionalista, se vogliamo usare un eufemismo. Ma non è finita qui.

La pesca diventa il simbolo di Esselunga, supermercato italiano che vuole offrire un nuovo racconto contemporaneo della famiglia. Se la mela, il pomo d’oro hanno portato nella Bibbia e nell’Iliade solo discordia, qui c’è una possibilità di redenzione. Prendi la pesca, mordi la pesca. Se accetti il falso dono della tua ex moglie, puoi continuare a credere di avere un controllo sul suo corpo, convincendoti di essere nel giusto perché tua figlia, infelice, infondo non vorrebbe altro che due genitori “normali”, che stanno insieme, che si amano. Eppure, questa è tutta una finzione che esiste non solo nell’utopia, ma anche nella strategia di marketing di un’azienda che lucra su sogni (impossibili) alimentando speranze irrazionali al posto di responsabilizzare e raccontare in modo critico, ma propositivo, la realtà delle famiglie italiane, fatta di difficoltà ma anche di dialogo, che si raggiunge solo affrontando lucidamente le sfide a cui tutti noi siamo esposti, indipendentemente dalla presenza o meno di un divorzio.

         Ma nessuno impone a una catena di supermercati di fare delle pubblicità “impegnate”, che assolvano alla missione storica di raccontare il cambiamento generazionale delle famiglie di oggi. Tuttavia, visto che l’ambizione è grande, oramai possiamo solo auspicare che l’Esselunga presto ritorni a pensare al suo immaginario più in piccolo, parlandoci di cose concrete: il cibo, nella sua dimensione reale e non astratta. Allora sì che una pesca finirà per essere soltanto una pesca.