5 film da riscoprire con Jean Paul Belmondo

Il naso schiacciato come un pugile, il viso stretto e allungato, l’aria da guascone, scanzonata e ribelle, e un cognome italiano che sapeva di latin lover.

Jean Paul Belmondo, icona del cinema francese, esce di scena a 88 anni, dopo una carriera formidabile con all’attivo oltre ottanta film.

Diventa famoso grazie alla pellicola d’esordio di Jean Luc Godard All’ultimo respiro (1960), film manifesto della Nouvelle Vague, nel quale interpreta Michel Poiccard, un ladro innamorato della bellissima Patricia (Jean Seberg), che cerca di convincere a fargli da braccio destro nelle sue truffe e rapine.

Dopo questa pietra miliare della storia del cinema, che scardinò i linguaggi e le regole della narrazione filmica, la strada per Belmondo era spianata. Lavorò quindi con De Sica, Truffaut, Chabrol e molti altri grandi registi, alternando ruoli in film più autoriali a commedie molto popolari, interpretando sempre parti dal grande fascino.

Nel 2011 e poi nel 2016 era stato consacrato nel pantheon dei grandi del cinema, ricevendo rispettivamente a Cannes la Palma d’oro alla carriera e il Leone d’oro alla carriera a Venezia.

Abbiamo scelto cinque suoi film da vedere e riscoprire.

La mia droga si chiama Julie, François Truffaut, 1969.

ssdsdsdf.jpg

Belmondo è il protagonista di questa pellicola che narra una strana storia di amore, avventurosa e sfortunata, in viaggio fra più continenti, niente di più lontano della familiare Parigi domestica e mondana della Nouvelle Vague che Truffaut ha tante volte ritratto.

La trama racconta del matrimonio per corrispondenza di Louis Mahé (Jean Paul Belmondo), proprietario di una fabbrica di sigarette, che all’arrivo della futura sposa vede invece scendere dalla nave la splendida Catherine Deneuve (la Julie della versione italiana del titolo del film). Marion (il suo vero nome), è in realtà una truffatrice che ha preso l’identità di Julie solo per rubare i soldi del povero Louis – che si rileverà essere uno sprovveduto in fatto di donne e affari – per poi fuggire in Francia dal suo compagno, complice della rapina e dell’assassinio della donna. L’inseguimento, anzi, la catena di inseguimenti e di fughe che si susseguiranno nella pellicola, passano dal tentativo di recuperare la refurtiva a quello di raggiungere l’affascinante Marion, in una corsa disperata che non farà altro che esaltare l’amore di Louis per la donna, dapprima timido, poi ardente e pienamente consapevole. Questo viaggio errabondo è un vagare fra le geografie dell’amore e della guerra, un viaggio che è un martirio e una vocazione, fatto di perdite e ricongiungimenti, sempre sospesi, sfiorati; che non trova pace nemmeno nel finale paradossalmente conciliatorio e idillico.

Stavinsky, il grande truffatore, Alain Resnais, 1974.

Film biografico che mette in forma l’affaire Stakinsky, focalizzandosi sulla sua controversa figura, in modo molto particolare. Contrariamente ai “biopic” di oggi che illustrano vicende scottanti del passato recente in maniera nitida e avvincente, qui è tutto ricercatamente confuso - o meglio -, problematizzato. L’interesse di Resnais per la temporalità, come in altri film (Muriel, il tempo di un ritorno, L’anno scorso a Marienbad), complica i piani della vicenda politica e giudiziaria, intrecciandoli con la vita privata e la sfarzosa ambizione dell’uomo, il suo estro criminalesco. qui risiede il fascino di questa ostica narrazione, quasi respinente a tratti nella suo essere istrionico.

Belmondo è un dandy brillante ma fragile nel lustro della sua vita scintillante. Prevale, verso il finale, un senso di irrealtà profondamente poetico che ci porta a domandare se questa vicenda scandalistica sia diventata piuttosto un’odissea mitica, così come la sua immagine. D'altra parte sono proprio le sue doti attoriali a rendere questo film memorabile.

Trappola per un lupo, Claude Chabrol, 1972.

Pellicola stravagante del grande e prolifico regista francese, in cui Belmondo ha il ruolo di protagonista. Medico di provincia di una cittadina francese, è un seduttore dall’incontenibile passione per le donne “brutte”, a suo dire più disponibili e accomodanti. Nonostante si sia spostato con una donna che - a suo dire - rientra in tale categoria, il suo appetito rimane insaziato. Nel corso di uno dei suoi picareschi intrighi d’amore si trova invischiato in un misterioso incidente che metterà in discussioni la sua presunta (a)moralità.

Film indubbiamente datato ma delizioso, nel suo uso sperimentale e “goliardico” del genere giallo. Una ricerca solo apparentemente minore e televisiva, rispetto le istanze della Nouvelle Vague, caratterizza l’opera di Chabrol, attento indagatore come lo era un tempo Balzac della commedia umana della società francese, dei suoi aspetti più minuti e sfuggenti. Qui Belmondo ha un ruolo dirompente che spicca nei momenti tragicomici, fino al farsesco finale.

 

La donna è donna, regia di Jean-Luc Godard, 1961.

Commedia musicale di rara eleganza, è forse il film più gioioso del regista. La storia inizia da una crisi di coppia che finirà con un ménage a trois in perfetto stile francese. Belmondo è il “terzo” che si inerisce nella vita amorosa della splendida Anna Karina, figura centrale dell’intera vicenda, e di suo marito, Jean-Claude Brialy, che non volendo avere dei figli di lei - nonostante le molteplici sollecitazioni - finisce per dar via a questo siparietto. Angela infatti - il personaggio che interpreta Karina - è una soubrette che davanti l’ennesimo rifiuto minaccia di concepire un figlio con il primo uomo che le capiterà sotto tiro.

Un’opera soave, dove la musica e un cantato che sembra quasi improvvisato accompagna i momenti più ironici e sentimentali. Tutto risuona magicamente grazie a un perfetto equilibrio, anche le consuete citazioni erudite che stratificano le implicazioni cinematografiche della pellicola, che vira senza soluzione di continuità dalla favola hollywoodiana alla commedia dell’arte italiana, tutto senza i fiocchi e la leziosità delle produzioni stile Broadway.

Moderato Cantabile, Peter Brook, 1960.

fgdgdgffg.jpg

Tratto da un breve romanzo di Marguerite Duras, è un dramma intimista che si regge interamente sulle prove attoriali dei due protagonisti, Jean Paul Belmondo e Jeanne Moreau. La storia parla di una relazione extraconiugale appena “sfiorata”: una donna incontra un uomo in un locale, chiede informazioni su un brutale omicidio, avvenuto da poco in strada, in cui un uomo ha ammazzato sua moglie, baciandola l’istante prima del trapasso, in un abbraccio voluttuoso.

L’uomo conosce quelle due persone, dice, e le risponde raccontarle una storia. La donna resta ammaliata da queste parole, iniziando a interessarsi sempre più all’uomo che scorge dietro di queste, che trapela sempre di più attraverso le nubi delle reciproche insicurezze, mentre lei ripensa ossessivamente alla scena orribile ma sublime di quella coppia dannata… ma il suo racconto sarà vero?

Tutto è sfumato e sottile in questa pellicola in bianco e nero, anche il dolore, che è tangibile ma quasi fantasmatico. Una regia sperimentale per un romanzo sperimentale, pioniere del nouveau roman. Belmondo qui ha un ruolo obliquo e impenetrabile, lontano dall’aplomb spavaldo e sorridente con cui verrà ricordato. Chauvin, il personaggio che interpreta, è infatti un uomo passionale ma profondamente oscuro, che plasma il suo immaginario sull’impressionabile psiche della donna, che presto confonderà l’uomo con l’omicida, e sé stessa con la vittima.