Fourth Time Around: Bob Dylan, John Lennon e il legno norvegese

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Dalle sessions newyorkesi Bob Dylan ottiene solamente lo scatto fotografico che finirà sulla copertina di Blonde On Blonde, ultimo appuntamento della trilogia elettrica. La foto è sfocata, un primo piano immortala uno Zimmermann infastidito in giacca scamosciata e sciarpa annodata al collo. Questo il magro bottino nella Grande Mela.

Si opta allora per l’estremo Sud e le registrazioni proseguono, o forse iniziano davvero, a Nashville. Gli studi vengono stravolti e messi a soqquadro da Dylan, che si libera del superfluo intorno a sé creando uno spazio aperto dove esistono solo strumenti musicali, membri della band e qualche cassa di alcolici. La leggenda tramanda la versione del “buona la prima” per quasi la totalità dei quattordici brani confluiti nell’album. La migrazione verso il meridione agreste e rurale portò gli esiti sperati, ovvero la conquista del suono “sottile, selvaggio e mercuriale” ardentemente agognato dal folksinger di Duluth.

Blonde On Blonde esce nel 1966 e diventa il primo disco doppio della storia del rock, anticipando di un niente Freak Out! di Frank Zappa. L’apertura è febbrile e scanzonata, senza la solita chitarra acustica o le armoniche tanto care, con un vecchio trombone che esala note ubriache seguito a ruota dagli altri fedeli compagni di sbronza. L’ultima partita elettrica di Dylan si mantiene ancorata al rock blues dei primi due capitoli e alle lezioni del folk per pochi attimi, deragliando in territori psichedelici e alterati per la maggior parte del suo tempo, in liriche torrenziali a metà tra delirio e pace dei sensi.

Fourth Time Around nasce a metà strada tra il gentile omaggio e la piccata risposta alla splendida Norwegian Wood dei Beatles. Che John Lennon fosse stato influenzato dallo stile dei testi di Dylan in questo periodo è evidente e la canzone, presente in Rubber Soul, è più attenta ai testi che alla musica nonostante l’ingresso del sitar di Harrison nelle melodie e i controcanti commoventi di McCartney. I due brani parlano della stessa cosa, di una scappatella con un’amante in abitazioni silenziose: mentre Lennon rimane per la notte e al mattino è la donna ad andare via e John può incendiare la casa di legno norvegese pregiatissimo, Dylan viene cacciato in malo modo e gettato lungo la via polverosa al termine di un diverbio. Tornerà per chiedere indietro la sua camicia, che otterrà, proverà anche a farsi offrire del rum giamaicano ma non gli verrà dato (Lennon invece beveva il suo calice di vino seduto su un tappeto nella calma circostante).

I due testi e le due armonie sono al limite dello speculare, due ballate acustiche che lasciano libero sfogo alle parole e ai quadretti che si generano, tra reale ed assurdo. In cinque strofe Bob Dylan folkeggia alla sua maniera e canta della stessa persona e dello stesso luogo per quattro minuti e mezzo, con immagini folli e uniche come quella della gomma da masticare offerta alla donna che sarà strumento di incomunicabilità. Norwegian Wood è uscita un anno prima è vero, ma attenendosi sempre alla tradizione orale pare che Bob avesse suonato l’abbozzo di Fourth Time Around proprio nel ’65 in una camera d’albergo a John Lennon, che poi ne avrebbe tratto ispirazione per il suo inedito.

E quando Al Kooper, l’organista improvvisato di Like A Rolling Stone, fece notare a Dylan la forte somiglianza quest’ultimo rispose dicendo che era la loro canzone che somigliava alla sua e che l’avessero presa da lui. E l’ultimo verso di Fourth Time Around per John Lennon è messo lì proprio per avvertirlo “Non ti ho mai chiesto la tua stampella/ adesso non chiedermi la mia”. Un incontro scontro tra primi della classe, nutrito da un rispetto profondo alla base.