Weekend in un luogo che non esiste

Scegliere la meta per un viaggio non è mai semplice, soprattutto se si vuole evitare di visitare le zone più battute. “Ti va di andare in un posto che non esiste?”, chiedo a Giulio. Lui: “Ci sto”. Nessuno spot pubblicitario, nessuna campagna promozionale e nessuna foto circola del luogo dove siamo diretti. Né io né Giulio c’eravamo mai stati prima. Un’occasione da non sprecare.

Arriviamo con il camper, muniti di biciclette, ed è subito salita. Si chiama “dei pini sacri”, perché ogni albero è dedicato a uno dei caduti della seconda guerra mondiale. Dove porta? Al castello, che domina tutta la valle. Da qui ti senti davvero padrone di ogni terreno. Solo che, se guardi in basso, lo spettacolo non è poi così magnifico. “Quello lo chiamiamo ‘il grattacielo’”, dice una signora del posto ad alcuni suoi amici. Indica una palazzina fredda, alta ed enorme, costruita intorno agli anni Sessanta. Come questa, ce ne sono altre sparse ai piedi del castello. Non si è immersi nella natura, ma neanche si è in una grande città. Rimane un posto dei misteri, come la festa che dà il nome a questo centro abitato e come il nostro percorso in bici, che dobbiamo ancora iniziare.

Troviamo un parcheggio dove poter lasciare il camper e scaricare le bici. Chiedo a Giulio: “Ti va di pranzare visto che è mezzogiorno?”. C’è un forno lì vicino, sull’insegna c’è scritto “dal 1875”. Ma antichità non è mai sinonimo di qualità. C’è un dettaglio, però, che mi influenza subito: sono tre adesivi rossi sulla parete. Il carattere lo riconosco subito, è quello del gambero rosso che da tre anni la considera una delle migliori pizzerie a taglio della zona. Non c’è che dire. La pizza è alta, soffice e unta al punto giusto. Per non parlare del pomodoro: fresco, saporito, sembra appena colto e passato. 

Bene. È mezzogiorno e mezza e abbiamo percorso appena 50 metri in bici. È il momento di pedalare. 

Seguiamo le indicazioni dell’app Komoot e iniziamo a danzare con le curve che si arrampicano sulle colline. Il sole è tanto. La fatica pure. Vediamo alcune persone sedute a un pastificio e ci feriamo un attimo. “La direzione è giusta?”, chiediamo. Loro ci forniscono subito le indicazioni e ci pongono alcune domande, che si ripeteranno ogni giorno. “Da dove venite?”. “Quanti chilometri avete fatto?”. “Dove siete diretti?”. Le bici, le sacche, l’abbigliamento sono probabilmente le origini delle domande, ma è vero anche che la gente vuole sentire nuove storie, vuole conoscere nuovi racconti e vuole viaggiare con la mente insieme a te. Anche da questo intuisci che non si tratta di un vacanza, ma di un viaggio.

A metà strada vediamo una fontana, acqua freschissima. Ci sono alcune mosche che ronzano intorno, ma uno non ci fa caso. Solo dopo essermi ripreso mi accorgo che, in realtà, sono un nugolo di api. Saranno state almeno duecento. Non ho pensato lì per lì a cosa facevo, accecato dalla sete, ma ho riflettuto dopo che a volte pensiamo troppo prima di agire. Per quanto desideravo bere, ricordo ancora il sapore dell’acqua. E anche la paura, sopraggiunta dopo, per le api. Ma i pericoli più grandi li dobbiamo ancora affrontare.

La salita continua. Arriviamo a un piccolo paese, deserto ma molto grazioso. C’è un ragazzo che vende frutta. “Qui non c’è più nessuno”, dice parlando con noi, “la gente va al Nord. Un mio amico adesso sta a Verona. Al Sud, come sai, non c’è lavoro. Io mi arrangio: compro frutta e la rivendo. Mi trovo bene”. Uva, pesche, fichi che sono una bontà. 

Ora è tempo della discesa. La strada è di campagna, non c’è asfalto. Si hanno solo due strisce verdi di vegetazione ai lati e davanti una pista bianca come quella da bowling. Noi? Due bici lanciate verso lo strike: un’area archeologica romana. 

Nell’ultimo tratto ci sospingono i clacson, la gente che ci saluta dal finestrino e quelli che si fermano per strada. “Vi avevo visto al bar che chiedevate indicazioni”, ci dice un signore prima di aiutarci nel percorso. La maggior parte della gente del posto è davvero gentile. Ed è davvero contenta di avere turisti. Anche se ce ne sono molto pochi.

I ruderi romani che visitiamo sembrano i fori imperiali capitolini in miniatura. Le colonne di un’antica basilica, i resti dell’anfiteatro e la porta che affaccia sul ciottolato portano indietro di mille anni. A differenza di Roma, però, non si sente il rumore delle macchine intorno, ed è più facile immergersi quindi nell’atmosfera e immaginare come si viveva un tempo in questa zona.

Da qui, la prossima tappa è un santuario. Ma non riusciamo a evitare la statale. Le macchine, i camion e i tir sfrecciano, ti spostano la bici. La fatica fisica è poca in confronto a quella mentale: sembra di essere tornati nel caos della città, anche se si è in aperta campagna. Mentre pedaliamo, vediamo al nostro fianco una strada immersa nella natura. Facciamo il possibile per prenderla, e ne vale la pena (anche se allunghiamo), perché così abbiamo più tempo per ammirare il paesaggio. I monti, con le loro linee a V al contrario, sono tanti segni di vittoria capovolti, una moltitudine di sorrisi verso la meta. In un percorso del genere, è piacevole anche perdersi. Cosa che puntualmente accade.

Ci fermiamo un attimo, Giulio deve controllare la strada. Di fianco a noi c’è un campo di granturco. E a me inizia a solleticare l’idea: “Sei mai stato dentro a uno di questi labirinti di piante?”, mi chiedo. Vedo il mio compagno di viaggio che mi fa segno di andare. Si incammina e lo perdo subito di vista, alla prima curva. Lui non lo sa, probabilmente lo scoprirà leggendo queste righe, ma se mi ha aspettato a lungo è perché ho posato la bici e mi sono tuffato dentro quel campo. Ed è stato stupendo. Hai la sensazione di perderti dopo ogni pianta che hai passato, ma anche di poter trovare qualcuno che vorresti incontrare.

È difficile uscire. Ma poi torno sui miei passi e raggiungo il mio compagno di viaggio. Lui è uno tosto, è questo che mi piace di lui. Non molla, ha la pelle dura. Ma anche lui ha, come tutti, i suoi timori. Lungo la strada vediamo un piccolo furgone con alcuni limoni. Pensiamo: “Ah, finalmente un po’ di limonata!”. Neanche per sogno. “Qui vendo vitello lesso con olio e limone”, dice Giuseppe. Ha la testa dell’animale davanti e la sta affettando per dei signori. A Giulio dà fastidio solo guardare. Neanche io mi sento a mio agio, ma decido di provare quel cibo del posto, una tradizione per quelle persone. E devo essere sincero: ero pronto anche a toglierlo subito dalla bocca. Invece è stato uno spuntino davvero gradito. Penso subito che, probabilmente, viene servito in piatti più raffinati nei ristoranti stellati. E che, alla fine, molte pietanze prelibate hanno radici povere. Dal profano, però, ora è tempo di proseguire verso il sacro (o almeno quello che si definisce tale).

Prima di arrivare al santuario, ci fermiamo a un negozio dove vendono funghi. “Entrate dentro”, ci dicono alcuni signori fuori, “e sentite l’odore”. Anche con la mascherina indosso, il profumo ti penetra nelle narici. “Perché hanno costruito il santuario?”, ci rispondono, “per dare un po’ di speranza a quelli del posto. Qui, negli anni Sessanta, la gente moriva di fame. Così, degli emigrati di queste zone hanno deciso di costruirlo”. 

La parte finale per raggiungere la chiesa è la più dura, ma anche la più bella. La vista è magnifica: un piccolo gioiello di architettura neogotica con vetrate colorate e punte acuminate. Una costruzione da fiaba. Ma, com’è che si dice? “Non giudicare un libro dalla copertina”. Ecco, entriamo dentro ed è pieno di telecamere e fari puntati sull’altare. Un vero e proprio show. Sul portone c’è un foglio con scritto: “Le messe vengono proiettate su Tv2000 e Canale 5”. La gente del posto non è poi così contenta. “Non mi piace più ultimamente”, ci dice una signora. “Grandi interessi girano dietro”, prosegue, “pensa che hanno tagliato tutta una fila di alberi per far vedere meglio la chiesa dalla strada”. E poi scopriamo che la comunità locale è stata estromessa dalla gestione. “Ora non è più in mano a gente del posto”, continua la signora, “ma altri se ne sono appropriati perché si sono accorti che si può sviluppare un business”. Accanto alla chiesa c’è un resort di lusso e tanti vengono qui sperando nel “miracolo”. Quello che servirebbe anche a noi per raggiungere il b&b che abbiamo prenotato.

Per arrivarci, dobbiamo pedalare nel buio. Non c’è dubbio che è pericoloso. L’illuminazione sulla strada è scarsa, così come quella delle nostre biciclette. L’oscurità è pronta a inghiottirci. Inoltre è tutta discesa: un animale sulla strada o un piccolo sasso posizionato male possono essere fatali. Al primo bivio per il paese vicino, Giulio devia dal percorso segnato da Google Maps. Scopriremo solo dopo che è stata una scelta preveggente: se avessimo proseguito, avremmo dovuto passare per due gallerie e, probabilmente, rischiare grosso.

Arrivati al primo centro abitato, Giulio si mette a parlare con delle signore sedute in piazza. “Molto bello questo paese”, dice, “non me l’aspettavo”. Loro lo apostrofano subito: “Questo non è un paese, ma una provincia!”. Non si direbbe, viste le dimensioni. Eppure il centro è curato e la pizza è molto buona. Adesso vado a dormire. Che la luce dello schermo del telefono potrebbe dar fastidio a Giulio. 

Il secondo giorno inizia come il primo: in salita. Prima in senso metaforico, poi nella realtà. Perché? Non sappiamo la strada e ci stiamo per perdere. Un ciclista con abbigliamento griffato ci affianca e ci mostra la via. “Se aveste proseguito per quella strada”, ci avverte, “sareste finiti nel traforo. Un tratto molto pericoloso, oltre che vietato”. È anche vero, però, che trovare il giusto percorso qui non è facile. “Mi piacerebbe fare da guida. È un’idea che ho in mente. E poi anche sviluppare più i tratturi, le vie della transumanza, dove i pastori passavano con il bestiame”. Gli diciamo che abbiamo notato che la gente del posto è molto gentile e che ci sono luoghi interessanti, ma pochi turisti. “Non siamo preparati”, ci risponde. “Considera che, quando nel resto d’Italia c’era il liceo con indirizzo turistico, qui ancora non esisteva”. 

Fabio non vive di ciclismo, nella vita fa il fisioterapista, anche se le due ruote rimangono una passione: “Tra qualche giorno parto per seguire il giro d’Italia u23, voglio mantenermi in forma”. Oggi, però, non si allena. “Vi accompagno alle cascate, così non vi perdete”. Inizia la salita, quella che non ci abbandonerà fino a fine giornata. Ma il tratto con lui sembra passare come se nulla fosse. Chiacchierare con un’altra persona ci distrae dalla fatica. Appena ci lascia a destinazione, gli promettiamo che torneremo per un giro con un gruppo più numeroso. Ma adesso non vediamo l’ora di rinfrescarci.

Le cascate sono fredde. E l’acqua gelida tempra il nostro corpo provato dagli sforzi. Ma il getto d’acqua è piccolo, niente di eccezionale. Il bello, però, è che si trova dentro al bosco. Mentre ci addentriamo, Giulio torna sul tema del turismo. “In Sicilia” mi dice, “quando andavo da ragazzo non c’erano turisti stranieri. Poi sono iniziati a venire i tedeschi. Qui mi sembra di vedere la stessa situazione di quando ero più giovane: solo gente del posto”. Eppure qualche turista c’è. Alcuni ragazzi stanno risalendo il torrente con delle imbracature: è l’acqua trekking. Un percorso che ci piacerebbe provare, se solo ci fosse la possibilità. Ma la risposta degli organizzatori è chiara: “Tutto pieno per oggi”. Forse meglio così, perché ci aspetta una prova piuttosto dura: pedalare per oltre 10 km in salita. 

Una strada faticosa quella per la vetta. “Eh, bella scarpinata”, ci dicono. Nel percorso non si sente nulla: solo il cigolio della catena sulla corona, il ronzio delle api e zanzare che ti passano attorno, lo stormire delle foglie e lo scampanellio delle mucche in lontananza. Nulla di più. Non passa una macchina per oltre un’ora e mezza. Le uniche forme di vita sono le farfalle bianche che ti carezzano il viso e che ti aiutano in questa prova contro te stesso.

Arrivati a un bivio, incontriamo dei signori che hanno passato il pomeriggio nel bosco. “Siamo venuti a prendere un po’ di fresco”. Anche a noi serve quel fresco che solo un po’ di acqua di più dare. Le gocce di sudore cadevano copiose dai capelli lungo la salita. “Tenete questa bottiglia”. Benzina per i nostri corpi. Proseguiamo e iniziamo a raccogliere i frutti dello sforzo. Poco prima dello scollinamento, si apre una vista meravigliosa della vallata. Voglio godere meglio il panorama. Secondo dalla bici, prendo un sentiero vicino al guardrail, presto attenzione a non calpestare fiori a stella blu e arrivo su una roccia a due passi dal strapiombo. La vista è incantevole e mozzafiato. Non so quanto tempo sono rimasto lì a contemplare la natura. Quei campanelli delle mucche che ho sentito lungo il tragitto, ora li avverto più forti. E vedo anche le mucche: come minuscoli puntini in lontananza. Ma mi devo sbrigare, Giulio ha proseguito e dobbiamo raggiungere ancora la cima.

Siamo in cima. Una vertebra di roccia esce fuori dalla terra, come se fosse la schiena di un animale. Roccia su cui si può arrampicare. Provo a vedere se scorgo qualcuno tra quelle fenditure, ma trovo altro. Mucche e altri animali al pascolo. Mentre scendiamo, fermiamo una macchina per avere indicazioni e otteniamo altre informazioni. “Qui a novembre è stupendo”, commenta la signora, “i colori sono incredibili. Siamo stati in New Hampshire, ma questi posti non hanno nulla a che invidiare”. Dopo una salita del genere, arrivare al paese che ci eravamo prefissati di raggiungere è un attimo. I 5 km che dobbiamo percorrere passano via di colpo. La fatica si fa sentire, ma è anche piacevole. Un senso di totale spossatezza che ti svuota il fisico, però ti riempie anche la mente di idee e di consapevolezza in te stesso, in particolare dopo una salita del genere.

Tra i negozi che vediamo in paese, ce n’è uno che subito ci attira. È una bottega vecchio stile, con strumenti antichi. Giovanni ci accoglie e ce la mostra. “Qui 60 anni fa c’erano quasi 80 artigiani del coltello, ora sono pochissimi”. E passeggiando tra le strade troviamo conferma. Segni di incudine e martello sono sopra alcune case, ma dentro non ci sono più gli artigiani di un tempo con i loro strumenti. Quelli che invece Giovanni conserva ancora, anche se solo per ricordo: oggi è tutto diverso. “Compro l’acciaio nella fabbrica e poi lo modello”. Con un nastro leviga il metallo, con l’altro il manico, composto da diversi materiali. “Di solito si usa il corno delle mucche, ma io ho usato anche le ossa di cavallo”. Da quanto tempo è qui? “Da quando sono pensionato, perché mio suocero non adopera più il locale”. Giovanni prosegue nell’attività perché non paga l’affitto, altrimenti non gli sarebbe possibile. “Ho lavorato in una fabbrica di coltelli per oltre trent’anni, poi ho continuato qui la tradizione”. E di coltelli in mostra ce ne sono tanti, ma c’è uno che attira la mia attenzione. Piccolo, con manico in avorio e alcuni segni incisi. “Cosa c’è scritto? Il nome del paese e della bottega”. Sul punto di giuntura, c’è poi una moneta francese con la parola egalitè: lo acquisto. È un prodotto che di sicuro non fanno gli altri. Anche se altri negozianti possono raccontare storie diverse. E così continuiamo a cercare.

“La tradizione per i coltelli in queste zone risale ai Sanniti”, ci dice Rocco, “che tennero testa ai romani per oltre mezzo secolo grazie alle armi”. È da cinque generazioni che lui vende coltelli. Qual è quello più acquistato? “Alla zuava. È diventato un po’ il simbolo di questo posto”. Origini del nome"? “Si chiama così perché lo usavano gli Zuavi, soldati francesi del 1800”. Il manico è giallo, ricoperto da punti neri qua e là. “Tartarugato”, prosegue Rocco, “era il loro segno distintivo. Nella vetrina c’è una foto che incuriosisce più delle altre. È antica e ritrae una persona con un arrotino. “Mio nonno girava l’Italia con questo”, racconta l’artigiano, “ce l’ho ancora a casa. Poi, oltre ad arrotare le forbici dei barbieri, si mise a vendere le lozioni per i capelli, balsami e infine profumi, un commercio più redditizio. È così che nacque da queste parti un’importante tradizione per le essenze”.

La stanchezza comincia a farsi sentire. Meglio riposare per domani. 

Una leggenda ci aspetta lungo il cammino. Ma, prima, ci si presenta un’altra salita. L’altimetria del percorso sembra il battito di un cuore innamorato. Sale e scende con noi lungo ogni curva. Dopo un po’, però, riusciamo ad arrivare in cima al castello che nasconde una storia. “Nel paese si narra”, ci dice il guardiano, “che una ragazza data in sposa al re si buttò giù verso un cantone per non maritarsi”. Cos’è un cantone? “È una falesia, uno sperone di roccia”. Le stesse con cui è stato costruito il castello, anche se, ormai, rimangono ben pochi resti. Diroccato e senza più il tetto, ci sono solo alcuni ruderi nella zona. E questo lo rende ancor più affascinante: perché consente una vista unica, a strapiombo, sulla valle.

Siamo quasi giunti al termine di questo viaggio. Ci manca solo l’ultimo tratto per arrivare al camper. Ma non è cosi semplice.

Il GPS non ci aiuta (ancora una volta). Anche se siamo a poche centinaia di metri dalla macchina, non troviamo la direzione giusta. Mentre Giulio cerca una soluzione con il cellulare, fermo un auto e chiedo indicazioni. La strada è nella direzione opposta rispetto a quella dove stavamo proseguendo. “Stavolta hai fatto bene a chiedere”, mi dice Giulio, “anche non ne potranno più di te: hai chiesto la direzione a tutti!”. Scherza, ma non troppo. È vero, ho domandato a tantissime persone la direzione, ma è un approccio che ho imparato da un’altra persona. “È grazie a Claudio”, gli dico, “lui parla sempre con tutti, da lui ho appreso molto nell’ultimo viaggio insieme. E ho notato che, chiedere indicazioni, è anche un’occasione per conoscere meglio le persone”.

Arriviamo stanchi, ma soddisfatti. E poco prima del parcheggio, incontriamo un murales con delle stigmate. Un segno del destino? Fatto sta che anche noi portiamo i segni del viaggio. Una bruciatura sul gomito (che mi sono procurato dopo una caduta), uno zaino rotto, un’asta degli occhiali distrutta. Ma siamo segnati anche dentro di noi, dalle esperienze e dalle storie che abbiamo raccolto. Ricchi in un mare di povertà.

Ogni paese che abbiamo incontrato sul viaggio aveva almeno 5 cartelli vendesi, di u35 non abbiamo visto nessuno e aree attrezzate ancor meno. Eppure di possibilità ce ne sarebbero, sopratutto nell’ultimo posto che decidiamo di raggiungere in camper. “Luogo naturale di eccezionale rilevanza”, c’è scritto sul cartello statale. Basta guardare il colore dell’acqua per capirlo: turchese. Sembra quasi che farsi il bagno qui dentro dia poteri particolari. E poi, intorno, i monti che ti circondano. Un paesaggio avvolgente, un abbraccio delle montagne a chi nuota.

Il Molise è una regione che merita. Una regione che esiste, anche se si dice il contrario. “Giulio”, chiedo al mio compagno di viaggio, “ci tornerai?”. “Certo”, risponde, “è un posto che merita e che, nonostante tutto, esiste”. 

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