Venezia 77: cinque film imperdibili delle passate edizioni

La settantasettesima edizione del Festival di Venezia è destinata ad essere ricordata, e non solo per i titoli in concorso. La celebrazione della settima arte non si è fermata di fronte alla pandemia e quest’anno il red carpet “covid-free” prevede mascherine, distanziamento e prenotazioni obbligatorie per assistere alle proiezioni. Cogliamo l’occasione per proporre 5 film delle vecchie edizioni da non perdere assolutamente, con un po’ di nostalgia per i tempi in cui potevamo sentirci un po’ più vicini.

Van Gogh-sulla soglia dell’eternità (2018) di Julian Schnabel, con un intensissimo Willem Dafoe, Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. Il regista, importante pittore del panorama newyorchese, restituisce all’atto creativo del dipingere un ruolo di primo piano nella logica narrativa e nell’estetica del film. Osserviamo da vicino le pennellate, i colori, percepiamo la fatica del lavoro manuale e lo sforzo di rendere sulla tela l’infinità della natura, la cui essenza, dice Van Gogh a Gaguin in una scena di pittura en plein air, è bellezza. La camera a mano e il montaggio sincopato restituiscono allo spettatore il senso del movimento, della frenesia euforica con cui Van Gogh si muove nello spazio alla ricerca di un’ispirazione sempre più assoluta e totalizzante; gli sguardi diretti in camera ci rendono intimi interlocutori di un dialogo profondo sul senso dell’arte e della vita, consentendoci di entrare nella mente tormentata di un genio e, forse, di capirlo un po’ di più.

La forma dell’acqua (2017) di Guillermo del Toro, Leone d’oro al Festival di Venezia 2017. Il titolo racchiude l’elegante ironia di questo film: l’acqua, infatti, non ha forma. Del Toro ce lo mostra in ogni scena: essa è pioggia purificatrice, nutrimento e vita quando la si usa per cucinare o far respirare una creatura marina; si adatta alle superfici e a spazi sempre diversi; è una metafora della vita racchiusa in un aforisma: “Time is but a river flowing from our past”. I protagonisti della storia sono immersi in un’atmosfera “umida” e subacquea, che recupera il valore simbolico dell’acqua come elemento primordiale e originario, necessario e purificatore. Parallelamente allo scorrere dell’acqua procede la vicenda di Elisa, giovane inserviente muta che si innamora di una creatura marina e, con l’aiuto dell’amica nera Zelda e del vicino gay “gattaro”, tenta di salvarla da un destino di morte. Accomunati dall’essere dei “diversi”, i protagonisti mettono in discussione la possibilità di definire la forma dell’“umano” rispetto al “non-umano”, del “normale” rispetto all’”anormale”. A non avere una forma riconoscibile è l’amore stesso, che si adatta con grazia a tutte le imperfezioni della vita e prolifera nei luoghi più inaspettati, come nelle migliori fiabe disneyane. Appassionato l’omaggio di Del Toro al mondo della favola classica, e in generale al cinema e ai suoi innumerevoli generi: per due ore lo spettatore vive le emozioni più diverse, dalla dolcezza della love story, al ribrezzo dei dettagli horror-splatter, all’iconico, a tratti sarcastico, tributo al cinema noir e di spionaggio. Un cinema sotterraneo, proprio sotto l’appartamento di Elisa, proietta senza sosta diverse pellicole: come l’acqua scorre ovunque vi sia vita, così la storia del cinema scorre in profondità mentre in superficie ogni personaggio fa la sua parte per creare un piccolo capolavoro.

L’insulto (2017) di Ziad Douieiri, candidato per il Leone d’oro al miglior film e premiato con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile di Kamel El Basha. Un litigio banale tra il libanese cristiano Toni e il rifugiato palestinese Yasser si trasforma in un contenzioso giudiziario che attira l’attenzione di un’intera nazione, risvegliando i sentimenti “antipalestinesi” del paese e riaprendo vecchie ferite, collettive e private. Il court drama orchestrato sapientemente da Douieiri mette in campo il conflitto tra un popolo reso apolide dalla guerra con Israele e il Libano conservatore che non dimentica gli abusi e le usurpazioni subite in passato dai migranti palestinesi. Lo spettatore non sa con chi schierarsi, non ci sono buoni e cattivi, ognuno ha le proprie ragioni e la legge è a un’impasse: essa si trova a dover giudicare quale dolore ha più valore, e il senso del film è proprio qui, nel fatto che “Il monopolio del dolore non ce l’ha nessuno”, come afferma l’avvocato difensore di Toni in uno dei passaggi più tesi e intensi del film. Un’occasione per riflettere sulle conseguenze che la Shoah e il conflitto israelo-palestinese hanno avuto e continuano ad avere nel nostro mondo, nonché sulle tensioni che accompagnano le epoche che vedono protagonisti flussi di migranti che premono da un lato e paesi intimoriti che respingono dall’altro.

Piuma (2016) di Roan Johnson è una boccata d’aria fresca nel panorama cinematografico italiano degli ultimi anni. Cate e Ferro sono due giovani fidanzati che devono affrontare contemporaneamente l’esame di maturità e una gravidanza inaspettata. Vediamo i protagonisti affrontare con delicatezza e ironia temi importanti come l’adozione, l’aborto, il rapporto genitori-figli e la disoccupazione.  Anche i momenti più drammatici conservano una leggerezza di fondo che fa sperare, una fiducia nei confronti dei giovani e delle loro risorse, nonostante gli errori e le ingenuità dell’adolescenza. Piuma è un inno alla leggerezza come la intendeva Calvino, quel “non avere pesi sul cuore” che è tutt’altro dalla superficialità e che ci consente di “planare sulle cose dall’alto”, come Cate e Ferro che grazie a un efficace effetto speciale in una scena nuotano nel cielo di Roma circondati da paperelle gialle!

Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone con Elio Germano, vincitore del David di Donatello come migliore attore protagonista. Guardando il film si ha l’impressione di osservare la vera vita di Leopardi attraverso un portale spazio-temporale: le ambientazioni credibili e per nulla artefatte, la meticolosa attenzione ai dettagli, i toni asciutti ma intensi. Gli attori diventano invisibili dietro i loro personaggi: Elio Germano riesce a incarnare il disagio profondo di una vita ostacolata e affaticata dalla malattia conservando allo stesso tempo il vigore di un’anima tempestosa e ribelle. Ciò che colpisce è il tentativo, perfettamente riuscito, di restituire l’idea del percorso letterario e artistico di Leopardi esaltandone le sfumature, le contraddizioni e gli aspetti più umani. Martone si attiene ai testi del poeta e da quelli parte per scavare nell’intimo di un uomo straordinario, dotato di un’energia sovrumana nonostante la cattiva salute. L’immagine che ne emerge ribalta in toto la “vulgata” su Leopardi inculcata spesso nelle menti dei giovani studenti, quella che lo rappresenta come un letterato depresso e irrimediabilmente pessimista, disinnamorato della vita. Martone e il suo cast restituiscono dignità al Leopardi uomo, esaltandone la vitalità e la resilienza. La sua poesia, invece, fa tutto da sé, e non ha certamente bisogno di essere riabilitata.