Soul, perché è scoppiata ed è superflua la polemica sul doppiaggio

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Come a molti tra i film più attesi del 2020, anche a Soul della Disney Pixar è toccata la stessa sorte di altre pellicole previste per l’infausto anno appena passato. Saltata la consueta uscita al cinema, Soul ha però potuto contare sulla piattaforma Disney+ per fare il suo debutto. E, a più di un mese dalla sua uscita, continua a far parlare di sé. 

Al di là dell’attesa, delle recensioni (positive) e dell’immaginata corsa agli Oscar nella categoria Miglior film d’animazione, ciò che ha fatto più discutere ultimamente riguardo questo film è stato il suo doppiaggio straniero, ovvero nei paesi di lingua non inglese. 

Protagonista di Soul è Joe Gardner, un uomo che vive coltivando il sogno di diventare un jazzista di professione, ma che nel frattempo insegna musica alle scuole medie. Joe, per inciso, è afroamericano. 

Negli Stati Uniti il doppiaggio di Joe è stato affidato all’attore e cantante Jamie Foxx, vicino al personaggio per la passione per la musica e per l’etnia. Non solo: l’intero cast di doppiaggio americano vanta la presenza di numerosi attori afroamericani. Non è accaduto lo stesso in Europa. D’altro canto i cast europei presentano pochi doppiatori di origine africana, perlopiù in ruoli minori, e così lo stesso protagonista Joe si è ritrovato con una voce “bianca” in molteplici versioni del film nel vecchio continente.  

le accuse di whitewashing

La cosa non ha mancato di far storcere il naso a parecchi. E ci si è domandati: come mai a un personaggio di colore, musicista jazz, è stata data la voce di un attore bianco? E così il doppiaggio europeo si è ritrovato accusato di whitewashing

Con il termine whitewashing si indica una pratica cinematografica in cui attore caucasico viene chiamato a interpretare un personaggio che nella realtà apparterrebbe a un’altra etnia, allo scopo di rendere il personaggio più appetibile per il grande pubblico. Come quando, nel grande dramma di Shakespeare, Otello era impersonato da un attore inglese con un bel po’ di cerone nero in faccia.  

In alcuni casi le accuse hanno colpito direttamente i doppiatori, in altri si è arrivato a chiedere un nuovo doppiaggio del film congruente al modello statunitense. Più black, per così dire. 

quali caratteristiche deve avere un doppiatore

Ma riflettiamo un attimo insieme. Lo scopo di un attore doppiatore è quello di dare voce a un personaggio, che si tratti di un film o di un cartone animato. Ciò che è richiesto a un professionista di questo campo è di avere una voce fonogenica, una dizione impeccabile, espressività e riconoscibilità. Si tratta di una tecnica nella quale l’aspetto di un attore, né tantomeno la sua etnia, dovrebbero avere alcuna rilevanza. Vi facciamo un esempio: per anni la voce italiana di Morgan Freeman è stata quella di Renato Mori. Sappiamo che faccia ha il primo, ma non il secondo, eppure riconosceremmo quella voce a occhi chiusi. Pur immaginando che Renato Mori fosse bianco, nessuno se l’è mai chiesto, né immaginato.  

Inoltre, in alcuni paesi come l’Italia, cercare di ricalcare il modello statunitense risulterebbe piuttosto difficile da realizzare. Non c’è, difatti, un bacino di attori-doppiatori ampio e variegato quanto quello degli Stati Uniti dal quale attingere. Perciò, in molti casi, ruoli che dovrebbero spettare per rappresentazione ad attori di colore vengono affidati ad attori caucasici per mancanza di risorse. 

La scelta di Neri Marcorè

Nel caso di Soul, la voce italiana di Joe è dell’attore Neri Marcorè. Una scelta non casuale: Marcorè è anche un musicista talentuoso e questo lo avvicina al personaggio al quale presta la sua voce. Parliamo di musica come trait d’union, perché se dovessimo parlare di cultura jazz afroamericana in Italia, e dovessimo trovare qualcuno che la rappresenti e sia allo stesso tempo capace di doppiare un importantissimo film targato Pixar, probabilmente diventeremmo vecchi. Senza contare che in Italia simile cultura è una nicchia nata e alimentata da influenze statunitensi. 

Le differenze tra il doppiaggio europeo e quello statunitense

In ultimo, essendo gli statunitensi i maggiori produttori di intrattenimento al mondo, possiamo immaginare che difficilmente capiti loro di ricevere prodotti non in lingua inglese da riadattare per il loro pubblico – e, se bisogna farlo, questi ultimi vengono piuttosto sottotitolati. Negli Stati Uniti non c’è una vera e propria cultura del doppiaggio, perciò molti degli ostacoli – ma anche delle bellezze – che possono venir fuori nel percorso di adattamento di un prodotto straniero sono mancanti. 

In conclusione, il dibattito che si è scatenato in queste ultime settimane non dovrebbe prescindere dalle differenze presenti nella realtà statunitense e in quella europea: a partire da quelle relative agli attori e al contesto stesso di doppiaggio, per non dimenticare quelle storiche e culturali.