Raffaele La Capria, “Ferito a morte”

“Ferito a morte” è straordinario, è necessario dirlo subito.

Si tratta, anche, di un libro estremamente complesso: lo dice La Capria, come si scopre in prefazione (che esorto a leggere solo dopo aver finito il libro), e lo dice Veronesi, autore di detta prefazione, il quale suggerisce di leggerlo persino tre volte di seguito o, almeno, di rileggerne il primo capitolo subito dopo aver concluso l’ultimo (consiglio che ho seguito e che, a mia volta, invito a seguire).

“Ferito a morte” si apre con un sogno. La Capria è riuscito, in queste prime magnifiche righe di questo primo magnifico capitolo a dare forma concreta al ricordo che genera il sogno. C’è una spigola che nuota, oggetto della caccia subacquea del protagonista Massimo, ma anche incarnazione di una delle metafore che fanno da sottotesto poetico alla narrazione. La spigola si salva dall’arpione e ignara scompare dietro un cassettone. Ecco, la straordinarietà di “Ferito a morte” sta in una spigola che nuota dietro ad un cassettone! Dopotutto, in queste primissime righe in cui la chiara, quasi scientifica rappresentazione della spigola compie la bislacca azione di andarsi a nascondere dietro il mobile di una stanza - ma attenzione, l’azione è bislacca ma anch’essa subito riconoscibile, collocabile nel flusso del tempo che sovrappone i ricordi e fa nascere un pesce da un sogno per andarlo a mettere dietro al cassettone che si intravede al risveglio - si ha la rivelazione della doppia natura di questo straordinario - lo devo ripetere -, straordinario romanzo.

“Ferito a morte” è una malinconica rappresentazione di fantasmi figli del bagliore del sole napoletano, quasi fossero gli abitanti dei roventi laghi generati dalla Fata Morgana. Di questi fantasmi - che sono fantasmi di palazzi, dell’intera Napoli, di persone e di pesci argentati - La Capria mostra, però, ogni più minuta caratteristica, come l’interno gelatinoso della testa di un polpo, la polvere gialla residua dal disfarsi dei muri, le sensazioni descritte e provate, realmente provate, dai personaggi: il corpo di Massimo disteso sullo scoglio ad asciugare al sole. Fantasmi e verità fisica sono i due universi di cui La Capria ha saputo fare uno stesso mondo. I personaggi di “Ferito a morte” sono tutti, dal primo all’ultimo, personaggi vivi e di spessore, e con questo intendo dire che si possono riconoscere come nostri parenti, come nostri conoscenti, significa che hanno il turgore della materia viva, che ne hanno il calore e le movenze, significa che occupano uno spazio nel tempo e sono tragici. Da Sasà l’istrione ad Assuntina l’ingenua, nessuno è escluso dalla gloriosa messinscena della mediocrità e della smentita delle speranze: nessuno, per quanto possa sembrarlo agli occhi degli altri - Massimo agli occhi di Gaetano, Sasà agli occhi di Ninì -, è il “beniamino del mondo”. Tutti, però, hanno i margini tremolanti di chi ha un corpo traslucido (forse solo Ninì-demonio, che da un certo punto della narrazione scompare e ci viene mostrato solo di riflesso, riesce a sfuggire alle regole di questo mondo di miraggi di cui, anzi, direziona i tremolii).

Per poter compiere questa miracolosa unione fra manifestazione tangibile dei fantasmi ed evanescenza della realtà, La Capria ha preso un fluido, il Tempo, e con esso ha cominciato a diluire la spigola ed il cassettone. Perciò ha ragione Veronesi, questo libro sembra il racconto di un unico pomeriggio, ma in realtà racconta avvenimenti nell’arco di undici anni. Ma mi si creda, apprendere questa caratteristica dal risvolto di copertina non dà la misura che si percepisce, leggendo, di tale complesso, raffinatissimo artificio che dona al libro unità: l’unità di una giornata perfetta di sole, forse mai esistita. A proposito di artifici retorici, raramente ho letto un libro di una tale eleganza. La Capria è, fino ad oggi, l’unico autore ad utilizzare sistematicamente la seconda persona singolare che mi sia piaciuto. E dirò di più! Proprio l’utilizzo della seconda persona singolare, che si scambia con la prima e con la terza in una continua danza delle voci narranti, è una delle caratteristiche più eleganti di questo libro: talvolta il testo assume proprio la forma di un flusso di coscienza - ho pensato spesso a “Le Onde” di Virginia Woolf - e quindi il “tu” è così giustificabile perché il libro, spesso con la voce di Massimo, parla a se stesso, non al lettore. Inoltre, il sesto capitolo, che descrive una scena conviviale, è per me un capolavoro a sé. Scene simili, quando ben riuscite, sono da me profondamente amate, nei libri, nei film, in ogni tipo di rappresentazione; ho sempre pensato che il meglio della civiltà si esprima attorno ad una tavola e che il talento degli artisti sia assecondato da tale circostanza. In questo capitolo, in cui la voce principale è, stavolta, quella di Gaetano, i dialoghi sono vivacissimi, guizzano come pesci, gli sguardi sono eloquenti e attraverso pochissime frasi i personaggi si manifestano in tutta la propria individualità. Vorrei usare un centinaio di superlativi per descrivere il mio entusiasmo per le qualità formali di questo capitolo, ma non posso tacere il parallelo entusiasmo per i temi trattati!

Giacché questo è un capitolo importantissimo in cui Gaetano spodesta il protagonista e diviene la lente attraverso cui giudicare Massimo - che ovviamente, in questo processo, perde parte del nostro riguardo e appare, anch’egli, mediocre. “Ferito a morte” è un libro di perdenti; non parlo solamente dei personaggi, ma anche della stessa Napoli, agonizzante sotto l’abusivismo edilizio, dei pesci, scagliati morti nel fondo di una barca, e persino del mare che, pur bagnando Napoli, non le porta ossigeno. Il mare benedettissimo di questa città prodigiosa, foriero di malinconia, incuba dentro di sé gli avvenimenti e li reitera infinitamente: tutto non scorre e tutto ristagna, destinato, quasi come l’Edipo di Dürrenmatt, alla stesso eterno fallimento: «Il mio nome, Maaàssimo!, la voce lontana di Glauco, quei giorni più brevi di un nome gridato sul mare, Maaàssimo!, ed io ancora nello stesso inesplicabile mare». Il mare di Napoli, che La Capria fa diventare immutabile, si oppone a Roma e a Milano, è un conservatore che distrugge, che rode piano ma inesorabilmente Palazzo Medina e che impregna di dolcissima nostalgia ogni singola pagina. Non esiste nostalgia maggiore di quella data dal ricordo di una realtà che, forse, non è mai stata vera. Il ricordo, per quanto possa essere preciso nella pedissequa rappresentazione della pelle argentata di una spigola, ricrea a ritroso il mondo secondo l’inclinazione di speranze e desideri; in poche parole, la giornata perfetta è un miraggio. D’altra parte “Ferito a morte” è un libro di miraggi, i suoi personaggi sono fantasmi e si aggirano in una Napoli che o si sgretola o viene sfigurata dalla follia edilizia. I ricordi dei personaggi sono fasulli e anche le loro sofferenze forse sono dovute a racconti inventati: sullo scoglio non è avvenuto nessun olocausto. Se persino le proprie sofferenze sono state vane, è giusto assecondare la duttilità del ricordo costruendo un passato alternativo, cercando tra la folla e quindi intravedendo - avendo l’impressione di intravedere - la bionda coda di cavallo, rifiutando in modo più o meno consapevole la realtà desiderandone una versione sublimata ma fasulla: «Ma in una sera così, l’estate, anche l’estate, è una noia, è una festa in cui si ha la nostalgia di una vera festa.»