Mircea Cărtărescu: “Travesti”

“Sensazioni di pancia” è una perifrasi un po’ volgare, spesso usata per rivendicare la liceità delle proprie scelte a scapito di una ponderata valutazione “mentale”, più faticosa, più chiara, meno istintiva.

Sì, l’istinto è la giustificazione nella quale si rifugiano i pigri di testa. Non sempre, però.

Effettivamente - e mi approprio qui delle definizioni di una banale ricerca su internet, perché la pigrizia è diffusa - esiste il sistema nervoso autonomo, cioè: «quella parte del sistema nervoso periferico che controlla le funzioni degli organi interni (come cuore, stomaco e intestino) e di alcuni muscoli». In particolare, i visceri sono sotto la giurisdizione di quello che viene definito sistema nervoso enterico.

La definizione un po’ pedantesca mi è necessaria per riuscire ad addentrarmi in qualche modo nella cacofonia di parole, suoni, colori, odori che dal protagonista fuoriescono senza posa, come fossero il flusso del sangue nelle arterie.

«M’immaginavo talvolta di essere rivoltato come un guanto e che il mondo esterno fosse il mio sangue, i polmoni, il pancreas, la linfa, le costole e le vertebre, mentre il profondo del mio corpo era luminoso, pieno di sole, di luna e di stelle, abbagliante di Divinità.»

Accade che il mondo di “Travesti” sia un mondo interno, viscerale. Il sentire di Victor, il protagonista, avviene attraverso quel sistema nervoso enterico prima menzionato, anzi, attraverso ogni organo, attraverso gli umori di ogni organo, senza risparmiarsi una chiara enunciazione: «…sotto il sole come una sacca di fiele, sotto le stelle come i gangli intestinali…»

Da un lato il corpo è lo specchio del mondo, ma scarnificato: non l’epidermide polita e vellutata, ma l’interno appiccicoso, ripugnante. Dall’altro lato è il filtro attraverso il quale fare esperienza del mondo - che è esso stesso corpo, ma sconosciuto. Ho detto filtro, ma in realtà niente viene trattenuto, non vi sono membrane osmotiche che selezionano e lasciano fuori i veleni, non c’è pelle a coprire i nervi, grattati sadicamente come farebbe il Divin Marchese con una delle sue vittime. Sentire è doloroso.

Per quanto l’ermafroditismo sia il tema del racconto - la quarta di copertina lo specifica diligentemente - e sia il motore, la risoluzione della vicenda, per quanto sia il nocciolo consistente di un racconto liquido e inafferrabile, un’àncora che dà senso all’insensato, io credo che la forza dell’allucinazione di Cărtărescu prescinda da esso.

L’oscenità infinita della sofferenza del protagonista si consuma in un’atmosfera bavosa, che è prima di tutto corporea. Il corpo è il fulcro problematico del racconto, il corpo come oggetto e come soggetto.

Travesti” non è tanto un libro sull’ermafroditismo, è più un dramma sul corpo, sul suo valore e sul suo significato.

La Chimera, figlia canonica del dualismo fra corpo e mente, è qui una creatura generata dalla fisiologia che vede contrapporsi, piuttosto, cervello e genitali: «Il tempo e il sesso trionfano sempre, alleati, contro la corporeità e contro la mente». A soccombere è quindi il primo, spellato e gettato via come facevano gli antichi egizi coi loro morti.

Il destino delle farfalle nello stomaco è quello di diventare le prede mummificate di ragni mostruosi e affascinanti - come quelli sorridenti o piangenti di Odilon Redon -, padroni di questo mondo scuoiato, rivoltato e rivoltante. Sono creature fameliche acquattate nei recessi più bui del cervello - nel quale Victor sale in visioni di scale e meandri di ragnatele - che hanno divorato per svuotare la scatola cranica e renderla la loro tana.

La sensazione tattile delle zampe degli aracnidi, così numerose, è fra i disturbanti formicolii che le membra percepiscono nel corso della lettura. Cărtărescu predispone trappole per ogni senso, immergendo le pagine in una ossessiva luce gialla (giallastra, dorata, giallo-urina, ambra, oro cupo, seppia…) con tutte le sfumature comprese fra l’oro e il vomito. Persino il suono è dorato, in continue sinestesie destabilizzanti. Mi sembra, fra queste stranezze, di ascoltare quelle composte da Scriabin nel poema “Etrangeté”.

La complessità di “Travesti” è quella di una voce che parla a se stessa, ad un “tu” maschile distante, quasi estraneo, e perciò trovo gravi, gravissime, benché sporadiche, le incursioni della seconda persona singolare quando usate al posto dell’impersonale. Ci sono dei «tu» rivolti a Victor, doppio del protagonista, che hanno ragione d’esistere, ma quelli che a lui non sono rivolti inaridiscono l’opulenta ambiguità del testo infrangendo, per quel breve lasso di tempo, il suo gioco di specchi.

Sebbene non possa dire che leggere “Travesti” porti piacere, le sue stranezze sono angosciose ma fertili e molto, molto potenti. Victor-Cărtărescu si oppone orgogliosamente, eletto svisceratore dei significati della vita, agli altri «felici e cretini», a ciò che gli altri rappresentano, ai loro «mondi omogenei» guardati sì con desiderio, ma con la consapevolezza della distanza.

Al rumore assordante delle grida degli altri Victor contrappone la propria conoscenza profonda delle cose, avvenuta attraverso «la turpitudine estatica della carne». Infine, egli abbraccerà la propria solitudine e diventerà scrittore, così come Cărtărescu è uno scrittore. Ancora una volta, ci si para davanti l’eremitica forza salvifica della scrittura: si tratta di un’illusione, ma basta a chi è superbamente perso.