"Mia sorella": l'esordio letterario di Fosca Salmaso

Spesso, tutti noi, abbiamo una sorta di diffidenza nei confronti di chi esordisce e non conosciamo. Preferiamo restare al sicuro, fruire in modo continuo di autori che già ci hanno conquistato, di cui si è già sentito parlare molto o che sono divenuti classici.

Lo capisco, è una cosa che tendo a fare anche io. È istinto di conservazione, suppongo. Questa rubrica, però, nasce dal mio intento (e quello della rivista L’Amletico) di cercare un confronto diretto con gli esordienti, nella speranza che, facendo un po' la loro conoscenza, si alimenti in tutti noi la curiosità nei confronti delle loro opere prime.

Vi invito quindi a scavalcare la "siepe" con me e andare oltre alla diffidenza nei confronti di ciò che ancora non conosciamo. E dunque eccoci qui. Cerchiamo di fare un po' di "luce" assieme.

Cominciamo questo percorso con Fosca Salmaso, giovanissima esordiente veneziana del '96, col romanzo "Mia sorella" (Il Saggiatore, 2022)

 

Al centro del tuo romanzo, sembra esserci il tentativo (se non addirittura la “tentazione”) che un affetto mancato o irrecuperabile possa essere sostituito con un altro. È una cosa che in maniera differente probabilmente abbiamo provato tutti, nella vita. Tu come la vivi? È più una tua paura, o una sadica speranza?

 

Sì, scrivo spesso di sostituzioni, parassiti. Penso sia più una paura, ma non ti nascondo che il pensare di poter essere sostituiti può far comodo… a volte anche a me piacerebbe poterlo fare.

A un certo punto del romanzo, la protagonista, Alice, cerca di sostituire la sorella perduta con una nuova ragazza. Quindi tutto comincia proprio con la sostituzione vista come tentazione, come dici tu, fino a quando la situazione si capovolge e Alice si ritrova a temere la possibilità che qualcuno prenda il suo, di posto.

Questa storia è anche una riflessione sul corpo, su cosa lo leghi all’individualità. È una cosa su cui rifletto spesso; per questo sono fissata coi fantasmi, me ne sono anche tatuato uno di recente, guarda… Ecco, diciamo che tutti i personaggi di questo romanzo sono un po' fantasmi, ma non a tutti gli effetti. O almeno non credo.

(sorride)

 

La tua storia si svolge quasi interamente all'interno di una casa, non una scelta facile da gestire, ma tu ci riesci; anche perché la casa assume quasi un senso metaforico: da una parte è un involucro protettivo, e però dall'altra finisce con l'opprimere i tuoi personaggi. Sarebbe giusto considerare la casa del tuo romanzo come una sorta di utero?

 

Direi di sì, per me era importante che la casa rimandasse all'archetipo della maternità, per questo insisto spesso con l'elemento “acqua”. A un certo punto c'è la tempesta, ma è là fuori, e fintanto che i miei personaggi rimangono in casa pensano che non possa capitargli niente di male, si sentono al sicuro, ma è proprio il contrario…

 

A proposito dell'acqua. Tu sei veneziana. Lo so che sembrerà una domanda scontata e che in molti ti avranno già fatto, ma mi sapresti dire quanto è fondamentale questa cosa all'interno del romanzo?

 

Certo. Il romanzo, come altri miei scritti, è ambientato Venezia, ma allo stesso tempo non proprio a Venezia. È la mia Venezia, quella che io ho vissuto. Da piccola mi affascinava un sacco il fatto che in gita scolastica ci portassero sempre in isole diverse della laguna, tipo al Lazzaretto, o a Murano, e in ognuna si faceva qualcosa di specifico: in una il vetro, in un'altra i pizzi, e in un'altra qualcos'altro ancora… e quindi da piccola la vivevo così, come se ogni isola avesse la sua funzione, una sua identità diversa… L'isola del cimitero! Tu lo sai che a Venezia c'è un'isola che è tutta un cimitero?

(rispondo di no, scioccato e affascinato)

 

Ecco, allora passerei a un aspetto della tua scrittura che mi piace parecchio. Ovvero l'uso di un linguaggio che richiama la morte, come ad esempio clavicole che premono contro i vestiti, unghie spezzate, giunture scricchiolanti, addirittura ciò che non è umano a volte sembra diventarlo, come quando scrivi: “circondata da rose sventrate”… Si sente nella tua scrittura questo tuo interrogarti sul corpo, e porti, a livello empatico, anche il lettore a farlo su se stesso, che è un esercizio delicato da fare, poiché non tutti siamo disposti a ricordarci della nostra mortalità corporea…

 

Come ti accennavo prima, penso spesso alla mia presenza corporea in relazione alla percezione della mia individualità, e infatti mi ritrovo a chiedermi: Che cosa del mio corpo mi identifica in quanto individuo e cosa no? E se capisco quali sono le cose che mi identificano, posso sfruttarle a mio vantaggio senza finire in un loop infernale dove magari perdermi e non riconoscermi più? È un po' quello che si chiede anche Alice. La mia protagonista vede ovunque dei fantasmi, e questo è il suo modo di chiedere a se stessa cosa le sarebbe successo se ci fosse stata lei al posto di Matilde (la sorella morta). Cosa ne sarebbe stato di lei? Sarebbe diventata un fantasma? Sarebbe tornata sotto forma di Egle? (la ragazza con cui Alice cerca di sostituire la sorella).

 

Al di là del corpo, o della mancanza di corpo, cioè i fantasmi o le suggestioni fantasmagoriche di cui mi parlavi, trovo che nella tua scrittura siano molto importanti anche i colori. Addirittura, in questo romanzo, spesso arrivi a dare dei colori specifici ai suoni…

 

Perché ce l'hanno, per me, un colore, o almeno io lo vedo, e quel colore è il modo più preciso in cui riesco a descrivere un suono. Continuo a usare queste sinestesie perché mi sembra che, quando le uso parlando, anche chi non ragiona in termini di colori di solito capisca quello che voglio dire.

 

Anche perché nel momento in cui dai un colore al suono, lo rendi più visibile.

 

Sì, e allora è di nuovo il corpo di un fantasma, in un certo senso.

(ride, e io con lei)

 

Quindi è un tuo modo di dare un corpo a qualcosa che, almeno in apparenza, pare assente, è corretto?

 

Mi trovo molto d'accordo con questa cosa che hai detto. Ogni “assenza” può palesarsi nelle nostre vite, e nel romanzo Egle è proprio l'assenza affettiva che si palesa all'interno della storia, in relazione al lutto che hanno vissuto Alice e sua madre.

 

Ecco, parlando della madre, a me fin da subito mi è parsa quasi come una strega. Nel senso che lei, ancora prima del lutto, vuole evocare qualcosa che non ha a che fare con ciò che definiamo reale, e quindi utilizza amuleti e segue dei rituali…

 

La madre rappresenta il modo sbagliato di essere una strega. Quando qualcuno dice di saper leggere la mano, o i tarocchi, tante persone si tirano indietro, hanno paura di essere condizionate, e anche se non è questo il senso di una “lettura”… questa paura va rispettata. La madre del mio romanzo ne è consapevole, ma non dà alle proprie figlie la possibilità di scegliere se farsi leggere la mano o meno, quindi nel suo caso la chiromanzia diventa invadenza. Per questo dico che incarna la maniera sbagliata di essere una strega, o meglio, di utilizzare le proprie conoscenze. Non le mette in pratica per agevolare l'evoluzione migliore delle figlie, per comprenderle, ma anzi usa la chiromanzia per condannarle, per decidere chi sono e chi saranno per sempre, senza offrir loro la possibilità di cambiare.

 

Insomma, strega o non strega, la madre potremmo dire che sia una conservatrice.

 

Esatto.

 

Ma infatti la cosa che mi ha colpito è che la madre non si è rifugiata in qualche rituale dopo il lutto. No. Lei è già così da prima. E vincola le figlie anche tramite l'utilizzo di amuleti. E quindi non è tanto il lutto in sé… il lutto capita, e non ci puoi fare niente, ma invece, qui, è l'elaborazione del lutto a risultare più pesante, proprio perché la madre ha questo approccio, giusto?

 

Sì, perché lei non sta male tanto per il lutto, lei sta male perché non riceve l'amore nel modo in cui vorrebbe riceverlo: non lo riceve dall’ex marito, non lo riceve da Alice, e quindi usa il lutto per giudicare e per avercela con gli altri, quando in realtà più che per Matilde sta male per questo suo convincimento che le persone non siano in grado di darle l'amore che si aspetta.

Questo non emerge in maniera esplicita nel romanzo, ma c'è, e mi piace che tu me lo chieda perché è il motivo che porta Alice a fare le sue scelte all'interno della storia.

 

Quindi la conoscenza che tu hai di certe pratiche, l'hai utilizzata perché ti faceva comodo come mezzo espressivo ai fini della storia, oppure perché sai che, come tutte le cose, se utilizzate nella maniera sbagliata potevano generare situazioni interessanti di conflitto?

 

Entrambe le cose, diciamo. Oggigiorno, queste pratiche vengono spesso snobbate, ridicolizzate. In parte questo accade perché alcune persone le usano nel modo sbagliato: non riescono a trovare, nella realtà, conferma di ciò che vogliono credere o giustificazioni ai propri comportamenti, e allora cercano di piegare i mezzi esoterici affinché forniscano prove di ciò che in realtà è solo nella loro testa. E la madre di Alice, nel romanzo, ne è un esempio.

Ho avuto il timore che nel libro potesse sembrare che io condanni pratiche come la chiromanzia, che conosco e a cui anzi sono molto legata, ma il fatto di avere creato un personaggio così non è un modo per screditarle, anzi. L’errore che la donna compie è evidente, e di conseguenza è evidente che la chiromanzia, che è in sè neutrale, non ne abbia colpa.

 

Non solo amuleti... nel tuo romanzo c'è, a parer mio, una sovrabbondanza di oggetti. Ora, a me il simbolico piace, accendono il mio interesse, anche nei film, e nel tuo romanzo ci sono tanti oggetti che richiamano il simbolismo, o l'allegorico: il vaso rotto, gli occhiali per daltonici, il tappeto macchiato, fotografie gettate nel canale… Ecco, tutto ciò, mentre leggevo, mi pareva sovrabbondante, se non fosse che poi, a lettura terminata, ho pensato che in effetti rientri nel modo che Alice e la madre hanno di supplire a questa loro grande mancanza affettiva. Quindi, secondo te, è corretto definire questa sovrabbondanza di oggetti come il tentativo di Alice e la madre di riempire il loro vuoto interiore?

 

Direi di sì. Ma infatti c'è una scena, all'inizio, quando Alice porta Egle in casa, in cui Alice si vergogna... perché nel momento in cui porta una persona estranea all'interno di questo involucro protettivo, come lo hai chiamato tu, Alice si guarda intorno come se fosse la prima volta, e si accorge che ci sono troppe cose, troppi oggetti, e si rende conto di quanto ridicolo potrebbe apparire un assetto del genere a una persona estranea come Egle. E allora ad Alice viene da ridere, ma si trattiene. Si trattiene perché è consapevole della presenza della madre, e non vuole offenderla. Però è solo questione di tempo, prima che Alice si ribelli, e parte di quell'assetto lo butti fuori dalla finestra.

 

E sarà un gesto piuttosto estremo…

 

Certo. Perché quando entra Egle, per la prima volta Alice si rende conto che quella casa è diventata un mausoleo. E che in realtà lì non c'è niente che davvero riconduca a Matilde come persona in carne e ossa.

In quel momento Alice prende coscienza che le candele accese dalla madre, secondo rituale, non vogliono dire niente. Il fuoco, così come tutto il resto, è solo una sostituzione della sorella che non c'è più, e le è finalmente chiaro quanto tutto ciò sia ridicolo, quanto non c'entri niente col mondo esterno. E quindi sì, c'è una sovrabbondanza, ed è importante che ci sia, proprio perché poi possa essere eliminata!

La cosa più coraggiosa che Alice fa è proprio buttare via tutte quelle cose, perché capisce che a lei non servono. O almeno, non le servono più.