Madeline Miller, “La canzone di Achille”

Portato qui dal grande parlare che si è generato nei confronti di questo libro, ho deciso di volermi fare un’idea in prima persona.

Ecco qui chiaro e tondo cosa ne penso: è orrendo.

L’ho letto molto in fretta non per il piacere di finirlo, ma spinto dall’esigenza di iniziare un nuovo libro il prima possibile. Certo, “La canzone di Achille” non pone resistenze ad una veloce lettura, semplice com’è, anzi, sempliciotto, direi piuttosto, com’è palese nelle numerose ripetizioni nelle descrizioni che scimmiottano indecorosamente gli epiteti identificativi del poema originario.

Il linguaggio che la “Canzone” impiega è un linguaggio dal vocabolario impoverito e facilitato, ecumenico mezzo di diffusione di massa per piacere a quanti più possibile. Il modo di esprimersi dei personaggi è quello dei più analfabeti adolescenti contemporanei, con espressioni che bucano il pallone del mito e lo fanno afflosciare.

Mi si può forse tacciare di snobismo, ma la radicale semplificazione del linguaggio, l’impoverimento del vocabolario, la perdita di parole e l’omologazione oratoria attestata sul livello dell’“uomo medio” - «lei lo sa cos’è l’uomo medio? È un mostro» - sono un male. Cosa facevano in “1984”? Eliminavano parole dal vocabolario e ne andavano fieri.
Da una scrittura simile non potevano non nascere personaggi pessimi per appiattimento, noia provocata, volgarità: un susseguirsi di cliché prevedibili, già visti e già sentiti, già sbadigliati.

Così, Patroclo diventa il tipico bishōnen, impacciato, debole, sensibile, puro di cuore che deve fare da contraltare ad Achille, il protagonista arrogantello, dai sentimenti e dalle reazioni semplici, lineari, amato da tutti e sicuro di sé; Teti la madre algida, perfetta, tipica star d’oltreoceano incorruttibile, piena di Botox, invece, alla fine, non può restare nella mente del pubblico lasciando di sé un’idea completamente negativa e deve quindi, per amore d’audience, tradire se stessa e mostrare in extremis un falso e sciagurato cuore buono sotto al seno siliconico. Così via, così via, ogni personaggio dell’epica è accalappiato e banalizzato sotto al filtro roseo del bestseller.

Ogni bestseller che si rispetti, d’altra parte, deve avere una recensione roboante da parte di un illustre giornale. Perciò, ecco che in quarta di copertina si legge, ad opera del The Independent, che Miller ha trasformato la «più famosa epopea di guerra in una storia viva». Mi fermo un attimo qui. Miller ha praticamente resuscitato l’Iliade. Era morta? Sembrerebbe di sì, giacché bisogna pur essere morti per resuscitare, giusto? Miller la necromante ha preso quel disgraziato poema dimenticato e l’ha fatto rinascere sotto ai colpi della sua tastiera vivificatrice, lei taumaturga.

Si dibatte, ogni tanto, su quanto sia lecito turbare il sonno placido dei morti. I cadaveri hanno dei diritti, il corpo morto è inviolabile, le pratiche funebri illuminano di un consolante chiarore la virtù delle civiltà.

Ebbene Miller, come hai osato tu turbare la veneranda morte dell’Iliade - ammesso che fosse morta, ammesso che agonizzasse -, per portarla a questa “nuova”, raccapricciante, imbarazzante vita?
Ma il The Independent non si limita a questo e prosegue dicendo che Miller non solo ha resuscitato l’Iliade ma l’ha resa altresì una storia «emozionante e sexy».
Non so chi abbia trovato l’ardire di scrivere una cosa simile, dovrebbe vergognarsi.

Tanto per cominciare, per trasformare qualcosa in “emozionante” bisogna che sia in partenza scialba. Non ci si pone il problema che L’Iliade sia un testo complesso e antico - ebbene sì, antico! - e che quindi lo sforzo per grattarne la crosta dei secoli e poter godere del suo profumo di miele e incenso debba essere maggiore rispetto a quello che richiede la scelta dell’ennesimo binge watching su Netflix.
Miller è una scrittrice priva di talento ma molto, molto furba. Ha costruito un prodotto di infima qualità ma con tutte le caratteristiche per piacere ad una grande fetta della popolazione, soprattutto statunitense.

Leggere “La canzone di Achille”, che Miller ha profanato più che resuscitato, dopo i biondi fluenti capelli di Brad Pitt (se ne sarà resa conto, la gente, che è lo stesso Achille?), rendendola un modaiolo dramma gay della più mediocre categoria, può aver avvicinato qualche sparuto lettore alle glorie di Omero. La storia è fighissima, davvero, ma d’altra parte non è merito di Miller. Achille ama Patroclo, gran luccichio degli occhietti gay, ma anche questa non è una novità friendly di Miller, miei cari, mie care.

L’amore e l’emozione c’erano già, non riuscivano a scomparire neanche sotto alla censura del traduttore più bigotto, e qui e là gli indizi apparivano fulgidi, con la bellezza dell’ambiguità  manifesta solo a chi sapeva coglierla, che faceva sospirare «si amavano, allora! Sì, si amavano!».
Anche l’aspetto erotico - non si dice sexy, si dice erotico - riusciva a intravedersi oltre le parole desuete da cercare sul dizionario, oltre i patronimici, oltre gli dei capricciosi e l’onore ferito e le lacrime di Priamo e la nobiltà disperata di Andromaca.

L’arte poi, in varie sue forme, ha tramandato così tante immagini prodigiose di Achille vestito da donna tra le donne di Sciro! Perché nessuno lo riconosceva? Perché Achille era tanto delicatamente bello da passare per una leggiadra fanciulla! Ed era giovane, quindi aveva i capelli lunghi, acconciati con grazia. È magnifico vederlo sul sarcofago di Atella, con il petto scoperto, un piede ancora calzato da una babbuccia vezzosa e lo scudo in mano. Deidamia, disperata, lo trattiene. Ma sto divagando.

Se Ru Paul avesse ingaggiato Miller per scrivere una sceneggiatura di una delle sue puntate, questa “Canzone di Achille” sarebbe stata un capolavoro, consapevole di essere trash e orgoglioso di esserlo.
Ma, ahimé, non mi risulta che Miller e Ru Paul si siano mai parlati, ed eccoci qui.

La colpa, però, è mia: avrei dovuto riconoscere l’inganno, come Laocoonte, e diffidare del Cavallo di Troia che qui accanto a me, oltrepassata la soglia di casa e finalmente voltata l’ultima pagina, mi guarda beffardo dalla libreria dicendomi: «non solo mi hai comprato, mi hai letto».
Adesso ti conosco, mio nemico. Troia è caduta, è vero, ma non mi lascerò ingannare una seconda volta. Non ci sarà Circe, giammai!
E se c’è qualcuno, fra voi, che non ha ancora lasciato entrare questo infausto dono nelle sue mura, ebbene!, lo lasci fuori a nitrire, anzi, a ragliare invano.

Guardatevi, piuttosto, quel capolavoro del sarcofago di Atella, che racconta, lui veramente, una storia viva, emozionante ed erotica.

Sarcofago di Metilia Torquata, da Atella. Ultimo quarto del II secolo d.C. Particolare del fronte principale con scena di Achille a Sciro.