La regina degli scacchi: la mossa vincente di Netflix

La nuova serie originale Netflix The Queen’s Gambit dimostra a milioni di spettatori che una partita a scacchi può essere appassionante, addirittura commovente. Al centro della scena un gioco antico e misterioso, dalle regole semplici ma indubbiamente complesso, come tutte le cose che non si lasciano svelare fino in fondo.

Ricorrendo ripetutamente a primi piani intensi e prolungati, la serie rappresenta lo sforzo contemplativo e intellettuale del giocatore mentre tenta di scrutare ciò che la scacchiera nasconde, le infinite combinazioni destinate a sfuggirgli. Il gioco diviene metafora della lotta contro i nostri limiti, una partita aperta tra mediocrità e possibilità di compiere grandi imprese.

Un destino condiviso dalla protagonista della serie, la giovane Elizabeth Harmon (Beth), che sin da bambina è divisa tra un immenso talento per gli scacchi e un’altrettanto profonda fragilità. Rimasta orfana dopo la morte della madre in un incidente stradale, Beth viene accolta in un orfanotrofio femminile: già nel piccolo mondo squallido e chiuso dell’istituto si delineano le direttrici principali della sua vita, la dipendenza da tranquillanti e l’amore per gli scacchi.

Elizabeth Harmon con il Signor Shaibel, il custode dell’ofanotrofio che per primo le insegna a giocare a scacchi.

Elizabeth Harmon con il Signor Shaibel, il custode dell’ofanotrofio che per primo le insegna a giocare a scacchi.

Col progredire della storia emergono in Beth alcuni tratti tipici del genio, infallibile e straordinario da un lato ma eccentrico, ossessivo e tendenzialmente autodistruttivo dall’altro. Sotto certi aspetti ricorda la figura del grande Bobby Fischer, campione del mondo di scacchi nel 1972: entrambi condividono il desiderio irremovibile di primeggiare e allo stesso tempo la condanna a una vita segnata dalla solitudine e dall’abbandono.

A questo proposito è interessante il docufilm Bobby Fischer against the world (Liz Garbus, 2011) in cui sono ben delineati i rapporti tra l’infanzia di Bobby e la sua personalità adulta. Le sue stranezze, l’atteggiamento chiuso e paranoico sono spiegati alla luce di un passato privo di radici, segnato dai conflitti con la madre, dalla quale si separa a soli 16 anni e che non rivedrà per molti anni e dall’assenza di un padre, grande enigma della sua vita.

Anche i protagonisti dell’infanzia di Beth escono di scena uno dopo l’altro – nessuno di loro sembra destinato a rimanere per assistere alla sua ascesa – e proviamo un sentimento di profonda compassione per Beth, ci immedesimiamo in lei. Per Fischer e Beth gli scacchi sono una fuga dal mondo, lo spazio della scacchiera è l’unico in cui sentono di esercitare un controllo. Il gioco è anche il loro strumento esclusivo di contatto con il mondo esterno, pur nel segno della sfida e del conflitto: l’altro, nel loro mondo, è sempre l’avversario.

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Su un piano più ampio la serie evoca la grande sfida del dopoguerra, la Guerra Fredda, che grazie a Fischer si consumò anche sulla scacchiera. Con la vittoria del 1972 contro Spasskij, Fischer spezza infatti il predominio russo nel mondo scacchistico a favore degli Stati Uniti, che fino a quel momento non erano stati rappresentati da campioni all’altezza di quelli sovietici.

Anche per Beth l’incontro più importante e temuto è quello con il campione del mondo in carica, il russo Vasily Borgov. La rappresentazione della sfida tra americani e sovietici si intreccia al tema centrale della solitudine. Elizabeth è sola, senza alcun supporto, e si accorge che invece l’avversario Borgov si prepara alla partita con l’aiuto di altri campioni.

Fischer aveva enfatizzato questo aspetto del gioco sovietico, in parte reale, accusando di cospirazione i giocatori russi e denunciando la tendenza sovietica a fare squadra per controllare il torneo dei Candidati al Campionato del mondo e impedire a qualsiasi avversario occidentale di qualificarsi. La serie non dà adito a teorie così radicali, anzi, è anche un inno all’amicizia e alla sportività e proprio in nome di queste ultime il destino di Beth assume un nuovo valore.

Boris Spasskij e Bobby Fischer durante il mondiale di scacchi del 1972, in Islanda.

Boris Spasskij e Bobby Fischer durante il mondiale di scacchi del 1972, in Islanda.

Infine, numeri alla mano, sappiamo che la serie è stata seguita da oltre 63 milioni di spettatori nel mondo. Un dato sorprendente visto che gli scacchi non sempre catturano l’interesse del grande pubblico. Ecco quindi un ulteriore elemento in comune con il “fenomeno Fischer”: lo storico incontro con Spasskij ebbe l’effetto, tra gli altri, di avvicinare moltissime persone al gioco degli scacchi, di generare una vera e propria frenesia diffusa.

La serie ha prodotto una seconda ondata in questo senso. Il romanzo Queen’s Gambit (Walter Tevis, 1983), dal quale è tratta la serie, è diventato bestseller secondo il New York Times dopo 37 anni dalla sua pubblicazione. Il numero di nuovi giocatori su Chess.com è quintuplicato negli ultimi due mesi e gli acquisti di scacchiere su Ebay sono triplicate. Che ci si interessi o meno a questo gioco misterioso, la serie ha il pregio di farci identificare in Beth e nel suo desiderio di farcela, di essere qualcuno, un desiderio che oggi è concesso a chiunque creda fortemente in qualcosa, a prescindere dal suo passato.

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