La mia droga si chiama Julie: una favola amara per adulti

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Dopo Baci rubati (1968) un'altra storia d’amore per Truffaut: stavolta, tuttavia, nessun compiacimento autoreferenziale o leziosità a estetizzare il rapporto conflittuale fra uomo e donna. Film dall’afflato intenzionale (dopo il precedente che risultativa smaccatamente francese) il regista abbandona gli stilemi abituali per immergersi nell’atmosfera da romanzo di dopoguerra. La regia, infatti, è asciutta: i dialoghi sono dettati a voce dal regista, e il film viene girato seguendo l’ordine cronologico degli eventi narrati. La mia droga si chiama Julie viene da un romanzo dello scrittore statunitense William Irish, sebbene nell’adattamento l’ambientazione cambi radicalmente. Non siamo infatti a New Orleans, bensì nell’Isola della Réunion, in uno scenario postcoloniale.

         La trama racconta dello sfortunato matrimonio per corrispondenza di Louis Mahé (Jean Paul Belmondo), proprietario di una fabbrica di sigarette, che all’arrivo della futura sposa vede invece scendere dalla nave niente di meno che la splendida Catherine Deneuve (la Julie della versione italiana del titolo del film). Marion (il suo vero nome), è in realtà una truffatrice che ha preso l’identità di Julie solo per rubare i soldi del povero Louis – che si rileverà essere uno sprovveduto in fatto di donne e affari – per poi fuggire in Francia dal suo compagno, complice della rapina e dell’assassinio della donna. L’inseguimento, anzi, la catena di inseguimenti e di fughe che si susseguiranno nella pellicola, passano dal tentativo di recuperare la refurtiva a quello di raggiungere l’affascinante Marion, in una corsa disperata che non farà altro che esaltare l’amore di Louis per la donna, dapprima timido, poi ardente e pienamente consapevole. Questo viaggio errabondo è un vagare fra i continenti fatto di perdite e ricongiungimenti, sempre sospesi, sfiorati; che non trova pace nemmeno nel finale paradossalmente conciliatorio e idillico.

         Insomma, si tratta di una storia di avventura e azione, niente di più lontano della familiare Parigi domestica e mondana per gli appassionati di nouvelle vague. Rispetto a Baci Rubati, inoltre, c’è anche un’altra differenza importante, sebbene dettata da fattori estrinseci: La mia droga si chiama Julie è un insuccesso commerciale, nonostante le buone premesse in termini di pubblicità e la presenza come attori protagonisti di Catherine Deneuve e Jean Paul Belmondo. A riguardo, commenta Truffaut: “La verità è che ho girato Baisers volés per guadagnare soldi che mi permettessero di acquistare i diritti di adattamento della Sirène (titolo originale del film)”

         Film sottovalutato, dunque, eppure fondamentale per l’importanza riconosciuta a posteriori dalla critica. Ma vediamo cosa rivela di speciale questa narrazione fatta di purezza e degenerazione. La storia inizia con un matrimonio che appare da subito come un vuoto vincolo legale, sovraccarico di determinazioni sentimentali e religiose che appaiono quanto mai fuori posto nel cinismo generale che segna il progressivo avanzare della vicenda. La storia d’amore, infatti, è tutta da farsi. Non solo, è in divenire, segnata da un movimento trasformativo che dallo spietato realismo estetico e “affaristico” della mentalità utilitarista di Marion conduce a un imprevisto tono da favola. Siamo in una baita, in montagna, ed è pieno inverno. La donna, avvelenato Louis – dopo che questi si è addirittura macchiato di un crimine per amore di lei - scopre improvvisamente di corrispondere a tale amore. Louis mormora poche parole, parole di rassegnazione e generosità sperdenti: non rimpiange nulla nei suoi ultimi istanti. L’evento accade. Le parole bastano a capovolgere completamento lo scenario e il ritmo della narrazione: dalla rovinosa deriva morale il registro si trasforma, e quello che si propone adesso è un viaggio impossibile verso la redenzione, la sublimazione (o la regressione) di un amore da favola.

L’impossibile happy ending è ricercato in una fuga apparentemente salvifica verso la Svizzera, dove un medico, chissà, oppure la magia di un panorama magicamente fiabesco, forse, potrà guarire Louis dall’azione degenerativa della tossina che lentamente lo sta conducendo alla morte. Non lo sapremo mai. Tutto sfuma in un’immagine di perfetta e astratta bellezza. La purezza della neve investe tutto: lui, assassino, resta uno degli innamorati più puri del cinema europeo; lei, da strega-avvelenatrice (Vamp, femme fatale… ricordiamoci che Marion è anche il nome di Janet Leight in Psyco) diviene un amante appassionata e devota. Perdersi, ritrovarsi, schivarsi, sfiorarsi, abbracciarsi, allentarsi, cadere, rialzarsi. La relazione uomo-donna rivela grande complessità anche alla luce dei riferimenti autobiografici e metacinematografici (rispetto una produzione filmica che vede l’avvicendarsi di rapporti con l’altro sesso sempre passionali e problematici, complice il fantasma di una figura materna onnipresente). La donna, sospesa fra un’identità di prostituta e bambina (Marion è in un certo senso un enfant terrible come Antoine Doinel. Basti pensare alla fobia che ha del buio) resta fino all’ultimo ambigua, prima dell’incantesimo finale. Louis, trasognato, non teme più di perdere il suo amore, e cammina faticosamente con soffici passi su un tappeto bianco di neve, verso un futuro incerto. L’orizzonte non si vede, né strade, sentieri o prospettive. In quest’ultima fuga impossibile a fare da padrona è la verginità della pagina bianca di un avvenire ancora da scriversi; ancora da farsi, prodursi, immaginarsi. Precisamente quello che questi due amanti inseguono, stavolta l’uno accanto all’altro, sostenendosi a vicenda, inseguendo di un sogno infantile di purezza maturato al capolinea di una storia “adulta” di infelicità e miseria.

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