Un film in ricordo di Letizia Battaglia (1935-2022)

A pochi giorni dalla scomparsa della fotografa Letizia Battaglia, dedichiamo un pensiero alla sua figura e alla sua opera. Fotoreporter in prima linea nel documentare la realtà cruda e viscerale di Palermo, i suoi scatti rigorosamente in bianco e nero, fatti con la fedele Leica M2, sono diventati indissolubilmente legati nell’immaginario collettivo all’opera di denuncia e resistenza di un’arte, e un’esistenza, che rifiuta condizionamenti esterni, affermandosi con coraggio.

Nutrendo le rubriche di cronaca dei giornali di sinistra, e le mostre di gallerie e musei, la pluripremiata fotografa nel lungo arco della sua carriera ha ottenuto numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Per citarne uno, nel 1985 le viene attribuito il prestigioso Premio Eugene Smith, traguardo dal grande valore simbolico, in quanto è la prima donna ad essere insignita di tale onorificenza. I suoi scatti, che sovente ritraggono le vittime e gli attori del mondo mafioso, si legano all’impegno civile dimostrato dalla sua persona, che permea integralmente tutta la sua ricerca. Battaglia è stata, infatti, attivamente coinvolta in numerose iniziative rivolte alla sua città, come nel 2017, quando è diventata direttrice del Centro Internazionale di Fotografia. Tuttavia, sarebbe erroneo ricordarla solo per le “fotografie di mafia”: mostre come Soggetto nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane, 1965-1985 (Centro Pecci, 14 dicembre 2018— 8 marzo 2019) l’hanno vista dialogare nel campo aperto e sfaccettato del discorso sul genere, in relazione all’opera delle colleghe Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano, Paola Agosti, e Marialba Russo.

La locandina italiana

Spari e scatti a Palermo

In questo nostro breve e sentito omaggio alla celebre fotografa, piuttosto che dilungarci offrendo a sua memoria una lunga carrellata di souvenirs, fotografie, mostre, episodi pubblici, scegliamo di ricordarla – e soprattutto raccontarla - con un film in cui ha preso attivamente parte, e che parla precisamente della sua città. Sì, perché Palermo Shooting (2008) di Wim Wenders è un film che, fra passato e presente, affronta precisamente il tema della morte. Una pellicola, quella del grande cineasta tedesco, che con un gesto autoriale e anacronistico legge la moderna città con le sue crisi e le sue fratture alla luce sulfurea di una candela, che irraggia il dramma presente con le immagini soffuse del suo passato sotterraneo. Delle ombre furtive che si dibattono nella notte. L’immagine allegorica de il Trionfo della morte di Palazzo Abatellis, l’atmosfera cupa delle Catacombe dei Cappuccini permea l’immaginario metropolitano e cinematografico in cui si si muove Finn, il protagonista di questa storia, un fotografo berlinese che vaga per le strade senza meta, incontrando Letizia Battaglia e intrattenendo con lei uno scambio verbale estremamente significativo:

 

“Tu sei una... fotografa?”
“Fotografo Palermo. La vita, la morte...”
“Tu fotografi la morte?”
“Si, tanti morti a Palermo”
“Perché́, che cosa vuoi dire?”
“Per onorarli, per ricordarli... perché́ non si perdano nella memoria”

La scena del film in cui appare Letizia Battaglia.

 Fotografia e morte

Ascoltare queste parole, assistere a questo incontro incastonato nella pellicola di Wenders, significa non solo avvicinarci alla poetica della fotografa, al significato politico della sua produzione, ma anche fare un viaggio a ritroso nella storia di questo medium, fino agli albori della sua invenzione. Nella storia, il nesso ontologico fra fotografia e morte è stato sempre evidente, basti pensare all’uso sociale che si faceva dei primi oggetti fotografici, prodotti da uno strumento non ancora maneggevole nei primi anni della loro commercializzazione. Fotografi specializzati offrivano ritratti in bianco e nero di persone care e familiari, testimonianze evocative per ricordarli quando se ne sarebbero andati, oppure offrivano visioni di insieme, scene di gruppo per commemorare eventi privati o pubblici, che - a causa dell’immobilità della posa e della luce accecante necessaria alla resa del nitore - trasformavano i soggetti presentati in fantasmi dallo sguardo allucinato. A queste narrazioni si possono aggiungere miriadi di altri esempi e aneddoti, come quello che riguarda il timore degli indiani Hopi, popolazione dell’America Centrale, che credevano di vedere risucchiata la loro anima se fotografati. Di pari passo si susseguono anche riflessioni teoriche che indagano le implicazioni etiche emergenti con l’uso massiccio di questo mezzo nella società massmediale, a partire dal pensiero dei citatissimi Walter Benjamin, Roland Barthes, Susan Sontag che hanno sottolineato aspetti a loro volta mortiferi, violenti, raggelanti di questi istanti di realtà catturati e tradotti in muta immagine.

Una scena del film

Restaurare la morte, testimoniare la vita

La “morte” nel discorso sulla fotografia non assume mai un significato estemporaneo, qualcosa che si basa unicamente sulla scelta del soggetto designato. Ogni scatto infondo è un memento mori. Letizia Battaglia lo sapeva bene, come anche Wim Wenders, che ha incorniciato l’incontro con la fotografa in una struttura e una narrazione che ruota attorno a temi dolorosi e drammatici, in grado di unire come in un nodo scorsoio le due rispettive personalità. Nella pellicola, la decadenza di una città violenta si rispecchia nel lavoro di restauro dell’affresco del Trionfo della Morte, compiuto dalla protagonista femminile, Flavia, interpretata da Giovanna Mezzogiorno. Un tentativo di preservare l’immagine dalla rovina, per mantenere intatta la possibilità di leggere la morte attraverso la trama pittorica. Testimoniare contro l’oblio, lottare contro il silenzio diventano azioni concrete, che si traducono in delle pratiche affermative, che evidenziano il lato attivo e performativo della memoria. Fare i conti con eredità ingombranti - che siano fantasie apocalittiche o corpus delicti - è una missione etica, ma risponde anche ad una vocazione artistica. Letizia Battaglia si è fatta interprete di entrambe le istanze, cogliendo nell’estetica dei suoi scatti lo spessore poietico, e non poetico, di una cultura e un contesto che richiedono una mano ferma e uno sguardo vigile, per non (de)cadere nel banale rischio di un decadente estetismo.