Antonio Canova e il recupero dei tesori rubati dai francesi

Quest’anno si ricordano i 200 anni dalla morte di Antonio Canova avvenuta a Venezia il 13 ottobre 1822. Tra i massimi scultori del Neoclassicismo, ricordiamo la delicata missione che gli venne affidata dal papa dopo Waterloo: riportare in Italia le opere d’arte razziate dagli eserciti napoleonici.

Quando nel 1815 ricevette l’ordine di Pio VII di recarsi in missione a Parigi come inviato ufficiale per “ricuperare” i tesori d’arte razziate dagli eserciti napoleonici, rimase letteralmente annichilito. Canova avrebbe voluto sottrarsi ad un compito così ingrato, ma non gli fu possibile opporvisi in alcun modo, dato anche l’incarico di Ispettore Generale delle Belle Arti dello Stato della Chiesa che ricopriva fin dal 1802. 

Asclepio della collezione Albani; ottenuto con il Trattato di Tolentino, oggi al Louvre

Pertanto, sia pure a malincuore, Canova dovette rassegnarsi a partire per la capitale francese. Mite e di carattere amabile, poco incline alle discussioni o alle controversie e, per di più, di salute malandata, non poté che piegarsi al volere del pontefice.

Tuttavia, temendo il peggio per la propria persona, si cautelò a modo suo. Come ha scritto l’indimenticato Massimiliano Pavan, massimo studioso italiano del Canova, “nel congedarsi dal papa che gli aveva conferito la Croce dell’Ordine di Cristo, il 12 agosto 1815, vale a dire poco prima di partire, lo scultore fece addirittura testamento”.

È noto che gli eserciti francesi discesi dapprima in Italia nel 1796 e poi trionfatori in Europa al comando di Napoleone, una volta riusciti vittoriosi sul campo di battaglia, si comportarono da autentici e voraci predatori saccheggiando chiese, musei e case private. Razziarono di tutto, dalle opere d’arte ai gioielli, dai cavalli ai vini e alle derrate alimentari, dagli arazzi all’oro, dagli argenti ai tappeti, senza ovviamente trascurare oggetti d’arte. 

Se nel 1798 non trasportarono in Francia anche la Colonna Traiana, fu solamente perché si rivelarono immani le difficoltà tecniche di realizzazione, nonché insostenibili i costi del trasporto dei pesanti rocchi della Colonna fino a Parigi, tanto da dissuadere il generale francese barone François-René-Jean Pommereul dal sezionare in pezzi il colossale monumento per poterlo spedire in Francia.

Parigi capitale dell’arte

Non solo in Italia, ma in tutta Europa, Napoleone autorizzò le più ampie razzie, che furono blandamente chiamate “spoliazioni”. Invece, si trattò di autentici furti e rapine, con buona pace dei bonapartisti per i quali Napoleone si comportò sempre da immacolato conquistatore! 

Per le ruberie commesse dai suoi eserciti il grande generale còrso, idealmente chiamato a Sant’Elena a rispondere di fronte al “Tribunale della Storia”, nelle proprie Mémoires addusse una duplice giustificazione. 

In primis, Napoleone affermò che nel trafugare ai popoli europei i vari loro tesori, soprattutto in Italia, dalla quale nel 1796 egli aveva scritto al Direttorio “Tout ce qui est beau en Italie sera à nous”, si trattava di porre in attuazione clausole di trattati di pace come quelli di Tolentino del 19 febbraio 1797 e di Campoformido del 17 ottobre 1797 che erano stati stipulati – ovvero “imposti” – in seguito alle vittorie militari francesi.

Atena di Velletri, rimasta nel Louvre

Inoltre, quasi fosse una valida giustificazione, Napoleone dichiarò che il suo intento era sempre stato quello di creare nei locali del Louvre un museo che raccogliesse il meglio che l’arte avesse prodotto nei secoli, onde fare di Parigi la capitale mondiale dell’arte stessa. Una simile ambiziosa esposizione di veri e propri capolavori trafugati a vario titolo sarebbe stata ospitata nel Louvre, che era già stato ribattezzato Musée National dai rivoluzionari del 1793, ma per il quale era previsto il nome di Musée Napoléon.

A tale proposito, lo storico francese Yann Potin recentemente ha riconosciuto che le “spoliazioni” napoleoniche – Potin, essendo francese, le ha chiamate così – cambiarono per sempre “la géographie culturelle de toute l’Europe”. Si trattava di sculture, dipinti, disegni, incisioni, manoscritti, libri, monete e medaglie, perfino strumenti scientifici, ovviamente oro, argento e gioielli, arazzi e tessuti di pregio, cristalli e qualsivoglia altro oggetto che potesse avere un interesse culturale o economico. En passant, i francesi requisirono anche i cavalli e, naturalmente, vini e derrate alimentari.  

Tutti ladri i francesi?

Tra 1796 fino al 1814, vale a dire fino a un anno dalla conclusione a Waterloo della sua parabola storica, gli eserciti francesi compirono razzie inaccettabili, tutte condotte “sulla punta delle baionette”. Basito da tanto furore predatorio, il popolino romano, con l’arguzia dimostrata nelle Pasquinate ormai da tre secoli, ne scrisse una celeberrima, nella quale Marforio, abituale “spalla” di Pasquino, nel suo solito stile fintamente ingenuo chiedeva: “È vero che i francesi sono tutti ladri?”. E si sentiva rispondere: “Tutti no, ma bona parte”.

Durante il Congresso di Vienna, quindi prima che i popoli europei ancora una volta coalizzati insieme (altrimenti non ci sarebbero riusciti) da vinti si trasformassero in definitivi vincitori di Napoleone, fu stabilito che tutti i tesori d’arte razziati dai francesi venissero restituiti ai legittimi proprietari. 

Gli ostacoli parigini a Canova

Pertanto, per la parte che riguardava gli Stati italiani, nel 1815 il povero Canova dovette recarsi in Francia obtorto collo, come commissario straordinario per recuperare le opere d’arte razziate dagli eserciti napoleonici in Italia nei due decenni precedenti. 

A Parigi il mite Canova incontrò non poche resistenze da parte dei francesi, in primis dal barone Dominique Vivant Denon. Direttore generale del Louvre nominato da Napoleone per quasi un ventennio, Denon era stato anche a capo della commissione di esperti incaricata da Napoleone di valutare quali fossero le opere d’arte maggiormente meritevoli di essere trafugate e trasportate in Francia.

Notevoli ostacoli furono posti all’operato di Canova anche e soprattutto dal ministro Charles-Maurice de Talleyrand Périgord. Dopo eterni rinvii e lungaggini, nel ricevere Canova, che giustamente si era presentato a lui come ambasciatore dello Stato Pontificio (nuova denominazione dello Stato della Chiesa dopo il Congresso di Vienna), Talleyrand arrivò al punto di apostrofarlo con mala grazia con le parole “Ambassadeur? Vous voulez dire emballeur, sans doute”. Tutto per sminuire una personalità illustre come Canova dal ruolo di commissario straordinario preposto al recupero di opere d’arte rubate dai connazionali di Talleyrand a quello più modesto di operaio incaricato di imballare statue, quadri e altri oggetti preziosi. 

Parigini scesi in piazza

Canova incontrò notevoli difficoltà anche perché non esisteva un elenco affidabile e completo delle opere d’arte trafugate, per cui egli dovette basarsi unicamente sulle proprie capacità di memoria, cosa che peraltro forse nessun altro sarebbe stato in grado di fare bene come lui.

A ciò si aggiunsero le proteste di alcuni popolani parigini che – opportunamente sobillati – scesero in piazza con veemenza per manifestare contro la restituzione di opere rubate dai loro eserciti, considerandola a loro volta non una legittima e dovuta restituzione, bensì una rapina effettuata ai danni del popolo francese! 

Rientro delle prime opere a Roma

Busto di Traiano, Louvre

Non deve quindi sorprendere se Canova, pur godendo dell’influente appoggio diplomatico della Gran Bretagna, che per suoi motivi geopolitici aveva preso a cuore la causa degli Staterelli italiani, alla fine riuscì a recuperare solo una parte delle opere d’arte trafugate. Infatti, su un totale di 506 opere da Canova faticosamente riassunte in un elenco, ne poté recuperare solo 249, lasciandone a Parigi ben 248, mentre 9 risultarono in vario modo perdute o per lo meno non rintracciabili. 

Il numero di opere d’arte rimaste in Francia fu abbastanza rilevante anche perché Pio VII non volle scontentare il “re cristianissimo” Luigi XVIII, che a più riprese si era manifestato contrario ad una restituzione dichiarando ­– in base a principi a dir poco discutibili e cervellotici! ­– che ormai le opere d’arte facevano parte del patrimonio artistico francese e non dovevano più essere rimosse. 

Il rientro delle prime opere d’arte a Roma si registrò il 4 gennaio 1816, mentre un secondo arrivo si sarebbe avuto in agosto, e fu un evento memorabile, ricordato dal Diario di Roma nei seguenti termini. 

Giunsero in questa Capitale diversi carri contenenti vari dei migliori capi d’opera in Pittura e Scultura, che con trasporto di giubilo e per il Bene delle Arti, ritornano ad associarsi a questi Monumenti Romani, vale a dire a quel centro di riunione ch’è il solo capace di formare gli Artisti e d’inspirar loro la sublimità de’ concetti. Questo avvenimento ha eccitato il più grande entusiasmo del Popolo Romano”

Antonio Canova, però, non poté assistere a questo primo arrivo che indubbiamente segnava il successo, sia pure parziale, della sua difficile e delicata missione. Alla fine del 1815, Canova si era recato in Gran Bretagna per mostrare di persona la sua gratitudine alle autorità inglesi le quali avevano agevolato il compito del Canova a Parigi. 

Ma delle interessanti vicende inglesi in cui rimase piacevolmente coinvolto Antonio Canova, tanto da venire anche interpellato per un autorevole parere artistico, parleremo la prossima volta.

Per ricordare i capolavori di Canova potete visitare la mostra virtuale CanovaExperience.

Creugante da Durazzo e Damosseno di Siracusa. Concepito da Canova senza commissione, venne poi acquistato da papa Pio VII nel 1801 per i Musei Vaticani (di qui l'iscrizione alla base «CVRA PII VII») per compensare il vuoto lasciato dai capolavori antichi portati in Francia dalle armate.