Il più grande fallimento nella storia della scultura è a Roma

A Roma diventano eterni non solo i capolavori, ma anche gli insuccessi. Quello più noto, e più sofferto, è realizzato da uno scultore che arriva nella Capitale dalle Fiandre a 23 anni. È il 1552 e si è nel pieno del Rinascimento italiano. La città papale ha visto le opere di Michelangelo e Raffaelo ed è in estasi. Il giovane ne è attratto e inizia a lavorare nella bottega del figlio d’arte Guglielmo Della Porta, che riceve commissioni da papi, nobili e dinastie. Con lui, il 23enne che viene dal Nord Europa impara e cresce fino a che, nel 1577, alla morte del maestro, si stacca. Ormai è pronto per mettersi in proprio. E infatti il suo lavoro non passa inosservato. Il cardinale francese Matteo Contarelli, ricco (ma anche probabilmente corrotto) mecenate, lo nota e lo indica per un lavoro a S. Luigi dei Francesi. Vuole nella cappella a lui dedicata nella chiesa una scultura di S. Matteo e l’angelo. La scena biblica è quella del cherubino che si avvicina all’apostolo seduto davanti a uno scrittoio e lo ispira per la scrittura del Vangelo. Un lavoro che il giovane delle Fiandre non vede l’ora di iniziare. Così, nel 1578, stipula il contratto: ha 4 anni per terminare l’opera. Ma questi termini non saranno mai rispettati, perché il lavoro andrà avanti per tutta la vita. Ci dedica ogni giorno, ma non riesce ad andare avanti e un senso di incompiutezza lo assale. Come se finire quell’opera volesse dire metter fine alla propria vita: tant’è che non la lascia vedere a nessuno. Quando lo scultore compie 80 anni, la statua non è ancora conclusa. Ma la deve consegnare. Appena i committenti la vedono, non sono soddisfatti e la respingono. Preferiranno affidare più tardi il lavoro a Caravaggio, che dipingerà un quadro diventato poi storico. La scultura del nordico, invece, trova posto in un’altra chiesa di Roma: quella di Trinità dei Pellegrini. E qui si può tuttora vedere e seguire le linee dure del marmo e la staticità delle figure rappresentate. Non c’è la grazia delle forme di Michelangelo o la magia dei dipinti di Raffaello, in questa statua tutto è fermo: dal libro sproporzionato che San Matteo tiene poggiato sul ginocchio fino allo sguardo impietrito dell’angelo verso l’apostolo. Eppure, questo lavoro è pieno di sofferenza, e quindi anche di bellezza, per tutto il tempo che gli è stato dedicato. Una vita per un lavoro. La vita di Jacob Cornelisz Cobaert.

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