"Il mare non bagna Napoli": come Anna Maria Ortese e la sua città si dissero addio

La figura di Anna Maria Ortese è, senza dubbio, una delle più inafferrabili del panorama letterario italiano contemporaneo. Anche l’indagine più certosina è destinata a ricostruire una storia fatta di contraddizioni e punti interrogativi. Affidarsi alla voce stessa dell’autrice – alle dichiarazioni pubbliche così come alle confessioni più intime e private – sembra il modo migliore di muoversi su un terreno così incerto.

Pensiamo, ad esempio, alla corrispondenza epistolare tra Ortese e lo studioso Franz Haas, ben 54 lettere (oggi accessibili presso l’Archivio di Stato a Napoli) che fanno luce, tra le altre cose, sulla questione più controversa e discussa che graviti intorno all’autrice: il suo legame sofferto, eppure viscerale, con la città di Napoli.

Ma andiamo per gradi. Nata a Roma nel 1914, Ortese raggiunge il capoluogo campano già nel 1928 e lo lascia soltanto vent’anni dopo, costretta dalla povertà; la nostalgia e l’amore la spingono comunque a frequenti ritorni. L’anno della rottura è il 1953, quando esce Il mare non bagna Napoli.

Il libro segna un discrimine nella vita della donna, le costa il rancore di alcuni intellettuali – ma anche dello stesso popolo partenopeo – e la confina a un doloroso esilio: nella città campana, da allora in poi, Anna Maria Ortese non tornerà più, se non una volta e soltanto per qualche ora. Scherzosamente, Ortese definisce Franz Haas il suo “ambasciatore a Napoli”, per averle procurato le foto di certe strade della città, durante il periodo di lontananza.

Così gli scrive in una lettera, il 12 giugno 1990: «Le Sue foto di Napoli mi portano sempre qualcosa della mia vita passata. A volte, guardando certe strade (quelle con le case altissime), provo uno smarrimento, e mi dico: di qui, sono passata anch’io.

Feroce e cara Napoli. Non la dimentico mai, nel mio cuore, e penso che davvero questa città è un aspetto della condizione misteriosa del mondo».

Sulla dura polemica sorta intorno al Mare, Ortese si pronuncia in via ufficiale nelle prime pagine dell’edizione Adelphi del 1994. L’impressione è quella di una sorta di ammissione di colpa per aver rovesciato su Napoli uno spaesamento che apparteneva prima di tutto a se stessa, per averla resa lo specchio della propria nevrosi.

Il Mare, dice, «fu giudicato un libro “contro Napoli”. […] A distanza, appunto, di quattro decenni, e in occasione di una sua nuova edizione, mi domando se il Mare è stato davvero un libro “contro” Napoli, e dove ho sbagliato, se ho sbagliato, nello scriverlo, e in che modo oggi andrebbe letto. […] Erano molto veri il dolore e il male di Napoli, uscita in pezzi dalla guerra. Ma Napoli era città sterminata, godeva anche di infinite risorse nella sua grazia naturale, nel suo vivere pieno di radici. Io invece mancavo di radici, o stavo per perdere le ultime, e attribuii alla bellissima città questo spaesamento che era soprattutto mio. Questo orrore – che le attribuii – fu la mia debolezza».

Il mare non bagna Napoli è una raccolta di racconti e reportage giornalistici ed è, certamente, il ritratto di una realtà – quella del dopoguerra – desolata e desolante, brutale e allucinata. La fotografia di una Napoli, la città variopinta per antonomasia, svuotata di tutti i suoi colori. Ortese ci documenta lo stato delle cose senza mai edulcorarlo e forse, non volendo, ce lo fa sembrare irrecuperabile e perduto: si fatica a vedere, tra le pagine, la fiducia in un riscatto.

Il primo racconto (“Un paio di occhiali”) ha per protagonista Eugenia, una bambina povera e quasi cieca, che non ha mai visto nitidamente il mondo. Gli occhiali sono un privilegio, e come tale Eugenia lo vive: con entusiasmo, con orgoglio – «ottomila lire vive vive!» – , con una riconoscenza che intenerisce il lettore, lo commuove. Ad esprimere tutto il suo disincanto è la marchesa D’Avanzo: «A te, che ti serve vedere bene? Per quello che tieni intorno!… Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo che vederlo». Inforcati gli occhiali, Eugenia vede nitidamente la desolazione che la circonda, sta male, vomita: il mondo è meglio non vederlo, sembra ripeterci quel conato.

Alla storia di Eugenia seguono altri racconti. “La città involontaria” contiene una accurata e sconcertante descrizione della vita nel palazzo dei Granili, edificio borbonico ormai non più esistente e che, dopo la guerra, divenne rifugio per migliaia di sfollati. Il rigore quasi scientifico che Ortese adotta per le descrizioni di questo scritto è un mezzo per puntare il dito contro l’indifferenza della borghesia napoletana dinanzi a quelle condizioni di vita subumane. Così, addentrandoci con Ortese nei piani inferiori dei Granili, laddove «il mare non bagnava Napoli», incontriamo bambini orfani, spavaldi e tetri, e madri sciagurate di figli sciagurati, e altra gente senza speranza, ammalata di sifilide, circondata dal buio, privata della dignità.

Ma le pagine che meno di tutte verranno perdonate ad Anna Maria Ortese dai suoi ex amici napoletani – e non solo – sono quelle dell’ultimo racconto, intitolato “Il silenzio della ragione”. L’autrice narra di recarsi da Luigi Compagnone per raccogliere informazioni su Domenico Rea, Raffaele La Capria, Pasquale Prunas ed altri intellettuali, allo scopo di scrivere un reportage dal titolo Che cosa fanno i giovani scrittori di Napoli. L’intento è inequivocabilmente polemico. Gli uomini citati avevano collaborato nel dopoguerra alla rivista «Sud» (edita a Napoli dal 1945 al 1947), progetto inizialmente condiviso anche da Ortese, alla quale li legava peraltro un rapporto di fraterna amicizia. Ne “Il silenzio della ragione”, l’autrice ritrae gli amici come dei morti viventi, dei relitti, non più animati da ideali e da sano entusiasmo, bensì immersi in uno sterile intellettualismo; colpevoli, perché arresi e indifferenti. Quanto alla scelta di citarli apertamente, affrancandosi da ogni censura, Ortese spiega -pentita – che si trattò di un suggerimento di Elio Vittorini per preservare l’incisività e il senso stesso dell’invettiva.

Nel 1994, il napoletano Nello Ajello scrive su «la Repubblica» un articolo intitolato Ortese spacca Napoli. Ajello esterna le perplessità e il dispiacere che Il mare non bagna Napoli aveva suscitato nei giovani napoletani. Taccia Ortese di drasticità dei giudizi, poi scrive: «Certe situazioni di ingiustizia […] erano degne di qualsiasi denuncia. […] Eppure – ci chiedevamo – è lecito stendere sulla città un velo livido, darla per morta, popolarla di mostri? Alla nostra concittadina autrice di un libro così sconvolgente avremmo voluto chiedere tanti perché su Napoli. Su lei stessa. Sulla sua allucinata sofferenza». In effetti, Ajello approda a Milano per cercare da Ortese quelle risposte, e le ottiene: «Gli amici che si dispiacquero avevano ragione . […] A quelle pagine ripenso con un senso di colpa. Il resto del libro, nel ricordo, continua a piacermi. Ma descrivere in quel modo quei miei amici e compagni, entrare così nella loro vita, mi appare oggi una cosa non giusta. Il fatto è che da giovane, quando facevo del giornalismo, pensavo che tutto fosse lecito. Vivevamo un dopoguerra drammatico. Tutti parlavano ad alta voce. Dovevano farlo». Nel corso di questo lavoro, chi scrive si è chiesta più volte come bisognerebbe, oggi, approcciarsi a Il mare non bagna Napoli. È Ortese stessa, sempre nell’articolo di Ajello, a suggerire una risposta: «Come il documento di una città e di una personalità umana, la mia, che viveva in uno stato di ansia dolorosa, di angoscia».

Certamente, pur col peso di tutte le ombre gettate sulla sua fama – più o meno comprensibilmente – , Il mare non bagna Napoli si conferma, ancora oggi, un prodotto letterario capace di scuotere, commuovere e ferire; soprattutto, di stimolare riflessioni, come si richiede ad ogni grande libro. Non uno scritto muto, ma urlante. Come urlante possiamo immaginare sia stato il dolore di Anna Maria Ortese per aver perso l’amore di una vita. Il 12 dicembre del 1992, ormai quasi ottantenne, scrive a Franz Haas queste parole: «Ho una tristezza così grande! […] Le invidio un po’ Napoli, perché cura tanti guai»