I 10 film più sperimentali sulle opere di Shakespeare

Autore fra i più rappresentati sul grande schermo (ben 410 trasposizioni), le sue opere sono state rese nei modi più vari, da tradizionali messe in scena teatrali registrate a sperimentazioni che sono divenute emblema del pastiche postmoderno.

La questione del complesso rapporto cinema e teatro - dibattuto dentro e fuori l’accademia, nello spazio della pratica registica, in quello della performance tout court - ha mostrato nella teoria come nella pratica che non esiste un approccio che si possa definire “corretto” o “rispettoso” in assoluto. Un modello, insomma, valido per tutti. I puristi sono stati delusi: nessun rigore nasce da una messa in scena pedissequa registrata senza filtri dalla cinepresa e poi venduta al grande pubblico come un’operazione autenticamente genuina, surrettiziamente equiparabile alla sua dimensione live. Walter Benjamin, in questo senso, insegna.

Shakespeare ha ricevuto una quantità impressionante di “versioni” attualizzate: dal celebre Romeo + Juliet di Baz Luhrmann a esempi ancora più radicali che intendiamo proporre, opere non tutte celebri, non tutte riuscite. Se il coraggio, in un certo senso, è da premiare, certi azzardi risultano in ultima analisi irrispettosi o travisanti. Alcuni, tuttavia, poterebbero valere una visione…

 

Macbeth, Roman Polanski (1971)

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Un film riuscito e apparentemente tradizionale: perché inserirlo in questa lista? Per una motivazione che si potrebbe definire quasi estrinseca. Il regista, scosso dall’omicidio da parte di Charles Manson di Sharon Tate, con cui era sposato e aspettavo un bambino, ha riprodotto la logica del brutale omicidio nella morte di Lady Macbeth. Una storia di follia e violenza risponde all’esigenza psicologica e emozionale del regista di elaborare un lutto altamente traumatico e mediatico. Emerge un dramma cupo e disperato dal fascino aspro e selvaggio, dall’atmosfera nera e stregonesca, che non si può che definire ammaliante.

 

Re Lear, Godard (1987)

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Un film pienamente postmoderno, in un clima sapientemente post apocalittico. Si tratta di un film-dentro-un-film in cui la dimensione meta-testuale permette di realizzare una riflessione ad ampio respiro sull’eredità shakespeariana. Il disastro del linguaggio, nucleo drammatico della tragedia originale, gioca qui un ruolo cruciale per riflettere su un'altra forma di linguaggio: quello del cinema. Alla fine dei tempi, quelli del cinema moderno, Godard-Lear inizia una riflessione che, come la presa di coscienza finale dello sfortunato re, si tramuta in una sorta di rinnegamento e di revisione della propria esperienza, del proprio sguardo. La differenza fra i due è che Lear muore e Godard vive, regalandoci ancora oggi opere sempre più radicali e sperimentali come Adieu au language, sempre sul solco di questa crisi senza tempo, apocalittica per l’appunto.  

 

Ran, Akira Kurosawa (1985)

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Pellicola celebre e spettacolare. Il motivo della scelta di inserirlo in questa classifica è evidente. Il medioevo nipponico, fatto di brutalità ed eleganza, fa da pendant alla dura e austera bellezza dell’Inghilterra shakespeariana. Re Lear è qui un dramma corale che si sfrutta abilmente l’aspetto che è stato in passato giudicato il principale difetto della tragedia: la lunghezza, l’indugiare su troppi personaggi e storie. Qui lo sguardo si dà come a volo di uccello: la Storia con la S maiuscola si colora di porpora e sangue, a dispetto della dimensione più intimista e umana. Eppure, questa è una delle tante “risposte” cinematografiche che si possono dare a posteriori a questo dramma così imperfetto e dilaniante.

 

The angelic conversation, Derek Jarman (1985)

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Mediometraggio poetico e avanguardista. La superba voce di Judi Dench legge i sonetti del poeta mentre scorrono immagini e sequenze profondamente evocative e trasgressive, in un trionfo di originalità e lirismo. Un film raro e indimenticabile, che sfrutta audacemente la potenza e l’attualità della lezione shakespeariana, oltre ogni genere e etichetta.

 

L’ultima tempesta, Peter Greenaway (1991)

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Opera d’arte totale, del senso sommo e trionfalistico della gesamtkunstwerk wagneriana, opera d’arte totale che si esplicita conteamporamente in tutti i media, ma senza la pesantezza teutonica, questo film è una gioia per gli occhi e per le orecchie. Arabeschi di parole e danze, di architetture formali e concettuali, mostrano dove può spingersi il cinema quando si insegue la chimera della bellezza, osando sfidarla. Un’opera che definirla elitaria è un eufemismo. Ultimo film del regista fatto in collaborazione Nyman. La coreografa Karine Saporta, con cui i due hanno lavorato, racconta in un’intervista le ragioni di tale rottura, ed è un peccato sapere come si può essere così geniali e al contempo così puerili.

 

Titus, Julie Taymor (1999)

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Dal Tito Andronico un’opera eclettica e intrigante, di grande complessità intellettuale. Epitome del postmoderno, il dramma si svolge nella Roma fascista dell’Eur e dei fasti rinascimentali/barocchi/decadenti di una città violenta e modaiola, una sorta di Babilonia tutta trucchi e artefici. Fatto di personaggi che sono dive o mostri di stile, l’opera è brillante e audace. Una visione che difficilmente si dimentica, anche per la violenza e la brutalità del dramma. Ralph Fiennes tenta un’operazione simile dirigendo e interpretando Coriolanus (2011), ma la coesistenza passato-presente non riesce, e il film si configura come una cafonata.

 

The Tempest, Julie Taymor (2010)

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Taymor, dopo Titus, opera qualcosa di più tradizionale. Versione fluida e quasi fantasy della commedia shakespeariana, quest’opera presenta un’ interessante variazione: il fatto che Prospero sia una donna. Helen Mirren interpreta questo ruolo inedito, sorta di saggia-maga in un’isola semi-abbandonata (per poco) che sembra popolata dalle fantasie surrealiste e da fantasmi femministi. Un film estetico nel consueto stile della talentuosa regista.

 

Belli e dannati, Gus Van Sant, (1991)

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Enrico IV fornisce il soggetto quasi “invisibile” di questo dramma borderline, piacevolmente datato. Caratterizzato dall’estetica cult dei film statunitensi (fotografia satura, stile pop e decadente, ricercatezza formale che dialoga con il gusto della narrazione d’intrattenimento), il film mostra la triste storia di eros e dipendenza di due giovani che sembrano condividere tutto e invece si rivelano alieni in un mondo cinico e ostile. Il titolo italiano, che riprende il romanzo di Fitzgerald, è piuttosto fuorviante.

 

Un Amleto di meno, Carmelo Bene (1973)

Un film che non si poteva non citare, da amletici. Totalmente disinteressato all’aura di classico dei classici del teatro, Bene decostruisce questo monumento fatuo che è l’Amleto nell’immaginario collettivo. E lo fa, come al solito, in maniera inconfondibile.

 

EXTRA: Riccardo III (scena da L’importante è amare, di Andzej Zulawski, 1975)

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Vediamo Klaus Kinski, demoniaco come sempre, in una scena recitare Riccardo III. Un momento intensissimo, colto di sfuggita. Sarebbe stato bello vedere la pièce messa in scena per davvero, dal regista stesso, sentire non solo il monologo, vedere non solo il suo volto distrutto in una scena animata da uno sfondo di ninfe danzanti e angeli neri e sanguinari. Ma infondo basta questo flash, così potente da inserirsi prepotentemente in questa classifica.