Un ritratto di Federico Zeri

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“Ognuno di noi, all’inizio della propria carriera, nutre progetti di ampio respiro… mi considero, sotto questo aspetto, un fallito: dalla monografia dedicata ai Trecentisti riminesi […], dal corpus dei deschi da parto [dipinti donati alle puerpere], alla ricerca delle precise fonti dei più antichi Romanisti fiamminghi, tutto è rimasto allo stadio di progetto, o anche, se pervenuto alla stesura finale, si è trasformato in motivo di fastidio e di insoddisfazione, finendo quasi sempre nel cestino dei rifiuti o nelle fiamme. Dal naufragio delle buone intenzioni si sono salvati […] circa 200 articoli. Ma questi costituiscono per me un motivo deprimente di insoddisfazione: perché essi non discutono che una minima parte del materiale che ho raccolto nel corso della mia attività di conoscitore e di ricercatore”.

È con queste parole che Federico Zeri (1921-1998), tra i massimi storici dell’arte vissuti nel secolo scorso, stilava un bilancio della propria carriera nell’Introduzione al primo dei cinque volumi che raccolgono la (quasi) totalità dei suoi scritti (Giorno per giorno nella pittura, 1988-1998). Un’autocritica piuttosto dura, forse esagerata, quella di Zeri, che d’altro canto riflette molto bene la personalità e l’indole di questo grande conoscitore d’arte, perennemente insoddisfatto, com’è tipico tra gli instancabili e indefessi studiosi di qualsiasi disciplina.

Basti però sfogliare i suddetti volumi editi da Allemandi (che, è bene dire, sono imprescindibili per qualsiasi storico dell’arte, immancabili sugli scaffali delle biblioteche specialistiche) per dissociare in un colpo solo la parola “fallimento” dalla persona di Federico Zeri. E non si tratta solamente di una questione di numeri: è importante tener presente anche la qualità dei suoi testi - semplici e icastici nella prosa, eppure mai banali, anzi, profondi e pungenti nei ragionamenti - per cogliere la grandezza dello storico nato nel cuore di Roma.

Nello scorrere i titoli dei suoi innumerevoli scritti, ci si rende immediatamente conto di come Zeri possedesse un’innata capacità a destreggiarsi su più fronti della ricerca. La sua produzione scientifica copre infatti periodi e ambiti culturali ben diversi tra loro, a dimostrazione della sua inarginabile curiosità; e fin dai primissimi anni della sua attività, poco dopo la discussione di laurea, appena venticinquenne, aveva dimostrato di potersi confrontare con le più disparate sfaccettature della pittura italiana e, dunque, di rifiutare qualsiasi forma di specialismo. Un vero conoscitore, insomma. Ma quella racchiusa nei cinque tomi Allemandi è l’eredità “solamente” intellettuale che ci ha lasciato Federico Zeri. C’è molto di più al di là di questi volumi dal riconoscibilissimo colore azzurro acquamarina. E la ricorrenza del centenario della sua nascita è un’ottima occasione per riportare alla memoria alcuni tra gli aspetti più appassionanti e distintivi della sua personalità, e per delineare, seppur sommariamente e in modo non certo sistematico, il ritratto di questo importante rappresentante dell’intellighenzia italiana del Novecento.

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Delle sue precoci capacità di indagare le opere d’arte se ne accorsero fin da subito i suoi due principali maestri, ovvero Pietro Toesca (1877-1962), con cui si laureò a Roma nel 1945 con una tesi riguardante la cosiddetta “pittura della Controriforma” - per intenderci quella sviluppatasi durante i delicati anni del Concilio di Trento (1545-1563); e Roberto Longhi (1890-1970), uno dei più grandi conoscitori d’arte italiana, con il quale intrattenne per oltre vent’anni un singolare rapporto di amore-odio. Il contradditorio legame con il mentore Longhi, dall’allievo definito (per l’appunto) “virtuoso calligrafo, padrone di una magia verbale, ma molto limitato nei suoi interessi culturali, avido di potere, dallo spirito provinciale e troppo spesso mosso da motivi mercantili”, viene tracciato con estrema lucidità - e non senza un velo di rancore - dallo stesso Zeri nella propria autobiografia, pubblicata nel 1995 con il titolo Confesso che ho sbagliato. La vasta letteratura su Zeri ha indugiato fin troppo su questo altalenante rapporto tra i due, mentre è bene ribadire il contributo determinante di Longhi nella formazione di Federico Zeri, il quale, durante gli anni Quaranta e primi anni Cinquanta, si fiondava settimanalmente presso la sua abitazione a Firenze armato di fotografie di dipinti, libri e liste interminabili di quesiti appuntati su carta straccia: gli insegnamenti e le nozioni di metodo apprese in occasione di queste visite furono determinanti se non cruciali nel percorso del nostro.

Dicevamo, Confesso che ho sbagliato. Si tratta di un testo piuttosto breve, scorrevole e di piacevole lettura, in cui egli ripercorre in tredici capitoli i fatti salienti della propria vita. Da queste pagine autobiografiche, che beffardamente non accennano in alcun modo all’errore annunciato nel titolo, emerge un uomo dalla straordinaria biografia, con la valigia costantemente in mano visti gli innumerevoli impegni di lavoro, e a stretto contatto con le realtà più affascinanti del suo tempo - memorabili a questo proposito gli aneddoti sui soggiorni nella Grande Mela, dove peraltro ebbe modo di allacciare un rapporto di sincera amicizia con la star del tempo Greta Garbo. Le mete predilette dei suoi viaggi erano Londra, Parigi, Los Angeles e, appunto, New York, dove, per i suoi meriti di connoisseur, fu introdotto nei principali ambienti del mercato artistico internazionale. Qui, inoltre, riuscì a conquistare committenze lavorative davvero prestigiose, tra tutte la stesura del catalogo della collezione di pittura italiana del Metropolitan Museum di New York: Zeri aveva solamente trentasei anni nel momento in cui riuscì ad espugnare il museo americano, ed erano bastate solamente due trasferte nella metropoli alla fine degli anni Cinquanta per lasciare il segno e convincere l’amministrazione museale ad affidarsi alle competenze di un giovane studioso proveniente dall’altra parte dell’oceano.

Una scelta emblematica e forte, quella del Metropolitan Museum, che lasciò non pochi strascichi nella vita di Zeri: di lì a poco, infatti, per lo stesso identico motivo, anche il Museo di Baltimora decise di mettere sotto contratto il nostro, mentre la Columbia di New York e la Harvard University di Cambridge, come si sa facoltà di punta nel territorio statunitense, approfittarono della sua sempre più costante presenza negli States per affidargli alcuni corsi in qualità di Visiting Professor (1963-1965).

Tasto dolente, per Zeri, quello dell’Università. Nonostante il successo delle lezioni americane, nessun ateneo italiano tentò di chiamare a sé il grande conoscitore romano. La carriera di Zeri fu infatti quella di uno studioso autonomo (quelli che ad oggi vengono definiti Independent Research), stipendiato da progetti come quelli del Metropolitan di New York, nonché da collezionisti e da mercanti d’arte bramosi di expertise che portassero la sua firma. In una lettera indirizzata a Stefano Rodotà, nel 1979, Zeri rivendicava la sua “posizione libera, non conformista, non legata al potere politico, e non vincolata da intrighi burocratici o universitari”, cosa che gli consentì sempre libertà di azione e di parola. In verità aveva tentato, lui con le proprie forze, di partecipare al concorso promosso dall’Università di Lettere di Torino: eppure di fronte a quella possibilità si era posto dinnanzi - e ora si capiscono molte cose - il maestro Longhi, che faceva parte della commissione: “mi disse apertamente che mai mi avrebbe promosso, dato che io, a suo avviso, ero fatto per i viaggi, per l’indipendenza, eccetera eccetera eccetera” (Confesso che ho sbagliato). A posteriori, commentò poi Zeri, la categorica opposizione del Longhi gli risparmiò “infinite noie, fastidi, compromessi, frequentazioni con personaggi odiosi”; ma di certo quel muro innalzato dal maestro fece precipitare gli eventi tra i due.

Non dimentichiamoci, d’altro canto, che Zeri detestava gli ampollosi riti del potere accademico: non condivideva in alcun modo la struttura e il metodo d’insegnamento delle Università del tempo, che, con quel suo fare esagerato e burrascoso che lo contraddistingueva, definiva schiettamente “inutile”. Per questo motivo, appena dopo la laurea nel 1946, decise di non proseguire il percorso accademico-universitario. Si iscrisse così al bando per entrare nell’amministrazione delle Antichità e delle Belle Arti, ottenendo a soli venticinque anni la nomina di Funzionario Ispettore. In tale veste censì e catalogò una quantità davvero considerevole di opere d’arte in tutto il Lazio, il che gli consentì di conoscere capillarmente il territorio regionale. Distintosi per attitudine e precisione - qualità che, soprattutto nel settore della tutela, sono di primaria importanza - nel giro di pochi anni divenne poi Direttore della Galleria Spada di Roma (1951), dove diede vita ad un colossale lavoro di recupero degli arredi e dei dipinti che, da oltre vent’anni, erano stati dispersi nei vari uffici dello Stato, a riprova dell’incuria in cui si trovava il patrimonio del tempo. Tale incredibile lavoro culminò nel catalogo ragionato della collezione, edito da Sansoni nel 1954.

Ma questa fu l’unica parentesi di Zeri nel mondo dell’Amministrazione pubblica, da lui stesso stroncata nel 1955: “Ammetto, come dicono in molti, di avere un carattere difficile, ma non ho mai accettato i compromessi o le soluzioni dubbie: io agisco secondo i principi che mi sono posto e di cui sono pronto ad accettare le conseguenze” (Confesso che ho sbagliato, 1995). La (assurda) burocrazia italiana non faceva per Zeri, che dopo pochi anni di servizio rinunciò a qualsiasi agio derivante da una posizione lavorativa stabile.

Zeri è stato un uomo dai molteplici interessi, colto, dalla straordinaria cultura: sarebbe un errore gravissimo considerarlo “solamente” uno storico dell’arte. Fin da giovane, per esempio, lo aveva appassionato la botanica, in una maniera peraltro piuttosto originale (“sono assolutamente persuaso che i vegetali hanno una loro intelligenza e delle forme di comunicazione speciali che ci sfuggono, che debbono essere ancora esplorate e che sono ricche di possibilità”, in Confesso che ho sbagliato, 1995), tanto che il giardino di casa sua - che a partire dal 1967 era diventata la sontuosa villa a Mentana, fuori Roma - era costellato da fiori e piante esotiche. Cercare su YouTube per credere: numerosi, infatti, sono gli spezzoni di documentari in cui egli disquisisce col giardiniere della fioritura delle rose o dell’impatto climatico nel proprio orto.

Inoltre, inutile a dirsi, Zeri era un vorace lettore di romanzi e di gialli (della biblioteca personale dello studioso ce ne parlerà Davide Ravaioli nel prossimo affondo), tanto da assumere il ruolo di advisor, di consulente, per la casa editrice Einaudi. Federico Zeri entrò in contatto con la realtà editoriale torinese inizialmente nelle vesti di autore: la sua tesi, come già detto discussa a Roma con Toesca, rimaneggiata e ampliata trovò la forma di un volume autonomo nel 1957 (Pittura e Controriforma), quando aveva da poco compiuto il ventiseiesimo anno d’età. A seguito dell’uscita di questo studio, lo storico intrattenne un rapporto epistolare costante con gli editori, in particolare con Giulio Bollati, uno dei suoi più grandi e stimati amici, al quale periodicamente consigliava testi secondo lui da tradurre o da ristampare: “Ti ripeto di non perdere l’occasione circa il bellissimo libro della Nochlin [Realism, 1971] - sarebbe da idioti mancarlo” (in Lettere alla casa editrice, 2010, 14 febbraio 1972).

Scrivere lettere. Per Zeri era un lavoro per certi versi dannato, in quanto ogni giorno montagne di missive si accumulavano sulla sua scrivania in attesa di una risposta. I tasti della sua vecchia Olivetti Lettera 22 - la stessa utilizzata anche da Enzo Biagi e Indro Montanelli - non hanno mai smesso di fare rumore, scandivano anzi la maggior parte delle sue giornate. Inviti, cataloghi, articoli, richieste di attribuzioni e di pareri: Zeri rispondeva sia ai grandi della Terra sia ai piccoli collezionisti di provincia. Per ogni quesito storico-artistico che gli veniva sottoposto, lui si rivolgeva - oltre che alla sua memoria prodigiosa - alla miriade di fotografie che aveva raccolto nel corso della sua vita e che trovavano posto in ordinati raccoglitori in pelle sulle pareti del suo studio.

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Perché sì, prima dell’avvento del digitale la storia dell’arte si faceva proprio con le fotografie, strumenti di lavoro imprescindibili per i conoscitori della generazione passata, ossatura del lavoro storico-artistico, secondo il principio che più se ne possedevano e più si riusciva a primeggiare nella disciplina. E Zeri, in questo, vinceva spudoratamente, dato che la sua fototeca è da considerarsi il più grande archivio privato esistente al mondo, con quasi trecentomila scatti antichi riproducenti opere d’arte che egli stesso aveva pazientemente collezionato durante la vita. Fotografie rigorosamente in bianco e nero (i colori infatti “sfalsano”, non sono mai fedeli alla realtà, impediscono di “isolare le forme e di analizzare lo stato di conservazione della superficie”, in Confesso che ho sbagliato, 1995), che quotidianamente sfogliava, analizzava, confrontava e imprimeva nella propria memoria, affinando il suo prodigioso occhio di conoscitore. Trascorreva molto tempo rintanato nel suo studio di Mentana, austero e isolato dal caos della città, completamente assorto nella raccolta del materiale fotografico e nel lavoro sullo stesso.

Eppure Zeri amava anche la mondanità. Era burbero, lo si è capito, piuttosto solitario e assorbito dal lavoro; ma allo stesso tempo era incredibilmente spiritoso, amava scherzare e intrattenere gli amici con imitazioni (le vittime principali erano i colleghi), scherzi e siparietti di varia natura. Così racconta, per esempio, della sua routine durante gli innumerevoli soggiorni newyorkesi: “una volta finita la giornata, con i suoi obblighi e la serie di incarichi ufficiali, ritornavo in albergo per uscirne, per frequentare un ambiente del tutto differente, frivolo in apparenza, che è l’ambiente del teatro e dello show business […]. Mi sono sempre curato di affiancare la mia attività ufficiale a un altro aspetto, ludico, quasi a schernire la pretesa maestà della scienza” (Confesso che ho sbagliato, 1995).

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Tra gli aspetti che più affascinano della persona di Zeri figura senza dubbio la sua incredibile capacità retorica. Davanti a pochi amici, a una platea gremita, a una telecamera, Federico Zeri era in grado indistintamente di incantare il pubblico con le sue doti oratorie. Mai un’esitazione nei suoi discorsi, mai un “ehm” tra una frase e l’altra, come se avesse sempre avuto di fronte a sé un gobbo televisivo. Senza dimenticare poi la lucidità che contraddistingueva i suoi ragionamenti, cristallini, sempre accessibili ai non addetti ai lavori e che mai si avvalevano di ricercati tecnicismi.

La sua competente ars oratoria ebbe modo di coltivarla e affinarla fin dai tempi della gioventù: durante la Grande Guerra, infatti, anche a causa della prematura morte del padre Agenore, un rispettabilissimo dottore che insegnava all’Università di Roma, la famiglia Zeri cadde in rovina, e ciò lo costrinse di lì a poco a proporsi come guida turistica agli ufficiali alleati francesi e inglesi: “durante il giorno illustravo il Foro romano, il Palatino e altri monumenti della Roma antica; la sera, rientrato a casa, leggevo libri di storia e di topografia romana […]. Ebbi un gran successo” (in Confesso che ho sbagliato, 1995).

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Ebbero un gran successo, allo stesso modo anche se molto tempo dopo, le sue apparizioni suoi quotidiani e sulla televisione italiana. Gli anni Ottanta infatti videro Federico Zeri protagonista sulle pagine di giornale nonché sul “piccolo schermo”, dove si fece conoscere al grande pubblico nelle vesti di focoso polemista e di vivace giornalista e narratore: in molti, per esempio, avranno presente il suo bizzarro abito da galeotto mentre racconta nel 1988 di Dante e della Divina Commedia, incalzato dalle domande di Antonio Debenedetti.

Zeri, vi è da dire, non nutriva molta stima e interesse per la televisione italiana e per i suoi “assurdi programmi, di una volgarità assoluta” e “retti da un solo principio: la paura dell’intelligenza” (in Confesso che ho sbagliato, 1995). Eppure era pienamente consapevole del suo potenziale: da quella tribuna, infatti, sapeva di poter denunciare le problematicità dell’Amministrazione delle Belle Arti, da lui sempre aspramente giudicata, e del degrado in cui imperversava il patrimonio pubblico. Indelebili, in questo senso, sono le immagini di lui che, con il bastone in mano, l’elmetto in testa e il passo ormai non più fermo, si aggira tra le rovine dei siti dell’Umbria colpiti dal feroce terremoto del 1997, con l’intento di mettere al corrente gli italiani della gravità della situazione. Senza scordarsi poi, tra le molte altre battaglie a cui prese parte, del suo aperto schieramento contro le illogiche iniziative promosse dall’amministrazione romana del tempo che, per citare Pirandello, trasformavano ulteriormente la Capitale da “acquasantiera” a “posacenere”: tra tutte, gli scavi della via dei Fori Imperiali e l’uso espositivo del Colosseo.

 Che sia anche questo uno dei grandi meriti di Federico Zeri, forse tra i più dimenticati. Con lui infatti la figura dello storico dell’arte assumeva un ruolo rilevante all’interno della società italiana e ne diventava protagonista anche nel giro mediatico. Necessario, però, con un certo dispiacere, fare uso del tempo verbale al passato, dato che i tempi oggi sono completamente differenti. Gli storici dell’arte infatti, ai giorni nostri, non hanno alcuno spazio in televisione o sui giornali, e sembrano incidere nelle vicende culturali solamente nel momento in cui emergono presunti Caravaggio o Raffaello. “Poi cala di nuovo il silenzio sulla disciplina”, come ha di recente constatato Alessandro Morandotti, dell’Università di Torino (Il Giornale dell’arte, maggio 2021). Ma lo sforzo di Zeri non è stato vano. Che venga quindi rispolverato e preso a modello il suo modo di fare, la sua dedizione al lavoro, la sua pertinacia, il suo rivolgersi al passato (in quanto storico) impegnandosi però in modo attivo e con coraggio al presente, il suo alzare la voce e puntare il dito apertamente contro i mali che inquinano le istituzioni. Ma anche il suo essere amabilmente burlesco e istrionico, accompagnando il tutto da una buona dose di leggerezza e di amore verso quegli aspetti della vita che esulano dal lavoro. Che, a onor del vero, non guasta mai.