Fabio Cherstich e le creazioni di Ubu Re: “Per me il teatro è un lavoro artigianale”

Ha meno di 40 anni, ma è già nella storia del teatro italiano. Fabio Cherstich ha portato l’Opera nelle periferie di Roma con il progetto Opera Camion. Ha avvicinato il pubblico al palcoscenico, sottolineando l’importanza dello spettatore e “la responsabilità”, per usare un suo termine, del regista. Ha iniziato a fare teatro molto presto, alle medie. “Facevo l’attore – racconta – e disegnavo. C’è stato sempre questo doppio lavoro: di regista e di scenografo. Di curare l’impianto visivo e la messinscena”. Nella sua ultima, quella di Ubu Re al Teatro Argentina, con Luigi Serafini ha creato un universo composto da teschi d’oro, troni a forma di lavatrice e corone di posate. Che fanno divertire, ma anche riflettere. Ne abbiamo parlato con lui.

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Quando avete iniziato a lavorare al testo?

La produzione mi è stata commissionata ad aprile. Abbiamo lavorato velocissimi e in pochissimo tempo. Quando Giorgio Barberio Corsetti mi ha chiamato e mi ha proposto di fare un lavoro sulla sabbia, ho scelto questo (ndr, Ubu). Ed è stato un rischio, da parte di tutti. Sono molto felice che il Teatro di Roma abbia deciso di rischiare con me. Non uno spettacolo tradizionale: sia per il testo che per lo spazio in cui l’abbiamo fatto. 


Perché ti è venuta in mente l’opera Ubu con la sabbia?

Mi piaceva l’idea di un’umanità persa. Come si vede durante lo spettacolo, le battaglie che si combattono sono assurde e le figure perse in questa deriva, che diventa anche ancestrale. L’inizio è infatti un giardino dell’Eden polverizzato, un luogo in cui Era diventa Madre Ubu e dove c’è un albero con una pera al posto di una mela. Tutto in chiave grottesca. C’è qualcosa di sconsolante in questa sabbia per me. Quando Serafini ha inserito le chiazze d’olio e le bombe ci è venuta in mente la Guerra del Golfo, al guerra per il petrolio. Che però, al tempo stesso, è la mancanza di acqua, il cambiamento climatico. La sabbia è la polvere primordiale.

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La sabbia rappresenta la deriva dell’uomo rispetto al Covid?

Lo lascerei sullo sfondo. Ognuno è libero di leggere ciò che vede nella sua contemporaneità. Lasciamo ai giornali parlare di Covid. Ricordiamoci che, nel momento in cui c’era la guerra in Vietnam, in America, a un certo punto i compositori, ad esempio John Cage, si chiedevano: che senso ha comporre la musica quando i nostri coetanei stanno morendo? Se ragioni così, dovresti andare in guerra e arruolarti. Il compito degli artisti, invece, è quello di trasformare il malessere in qualcosa di polemico, tracciarne qualcosa nella memoria, offrire un’alternativa di alleggerimento. Quello che mi interessava, in relazione al Covid e al momento che stiamo vivendo, è che le persone potessero stare al chiuso miracolosamente e guardare qualcosa di folle e divertente, grottesco e violento. E che potesse far loro riflettere sul potere e le sue conseguenze. Il mondo che presenta Jarry è ben migliore rispetto a quello contemporaneo. L’aspetto agghiacciante di Ubu è che, all’epoca, quando è stato scritto, aveva una visione oracolare di quello che è stato il primo Novecento. Ecco invece che oggi, rileggere il testo e ascoltare queste parole, a noi, che viviamo in un momento in cui il dilettantismo è diventato la chiave della politica insieme all’improvvisazione, la figura di Ubu ci fa sorridere. Perché la realtà ha di gran lunga superato il paradosso di Jarry.

Durante lo spettacolo ci sono diversi elementi curiosi: una pera, un uovo. C’è dietro del simbolismo?

Più che simbolismo, un divertissement, un utilizzo patafisico degli oggetti. E con ciò intendo che ogni oggetto è spinto oltre la sua funzione e permette di immaginare e raccontare cose grazie all’immaginazione. Se pensi alle battaglie, lo Zar è incartato in un questo gesto continuo. Abbiamo trattato tutto in questo modo. 


Surreale?
Assolutamente sì. Più surreale che surrealista. Surrealista porta a un discorso d’avanguardia e legato al sogno. Qui non c’è nulla legato al sogno. È iper ponderato, razionale. L’unico sogno è quello di Pulcinella. 


Tu ha realizzato Opera Camion, spettacoli con cui portavi in giro tra le periferie di Roma i grandi autori come Mozart e Rossini. Anche qui, con Ubu, mi è sembrato che volessi mantenere un ambiente di strada. C’è infatti un personaggio che aspetta fuori dal teatro il pubblico. Che poi è l’autore stesso: Jarry.


Per me il tema centrale è il pubblico. Il teatro non può non pensare al pubblico. Siamo in un momento in cui non si può non pensare al pubblico. 


È importante riportare il pubblico al centro.

Il problema è che si parla di riportarlo al centro, quando il pubblico è il centro. Il teatro non si fa in camera, non è una cosa privata. Il teatro è un gesto sociale. È uno strumento di comunicazione. E quando si fa un lavoro, si convoca il pubblico e si ha una responsabilità. Il fatto di aver convocato delle persone a guardarti è responsabilità. Le persone sono importanti. 


È vero che tu, da piccolo, facevi il teatro in casa?

Sì, da molto piccolo avevo il mio teatrino. Mio nonno che faceva le scenografie, mia nonna che cuciva i costumi. C’è un discorso fortemente artigianale in quello che io faccio. Un lato pratico. Io dico sempre che se non fossi un regista farei il falegname, qualcosa di molto pratico e artigianale. 


Si vede il lavoro artigianale nella creazione dei costumi e delle scene. Un grande lavoro. 

Lì c’è soprattutto il lavoro di Luigi Serafini che fiorisce. È stato bello mettere in scena il suo linguaggio.

Durante lo spettacolo c’è una lavatrice che diventa il trono di Ubu, com’è nata questa idea?

È una vera REX, una lavatrice regina. Un’intuizione giusta che ho avuto e che è stata trasformata in quello che hai visto con Serafini. Volevo una lavatrice in scena perché la giduja (ndr, dalle note di regia: “è la famosa spirale che compare sull’enorme pancia di Re Ubu e ne diventa così il simbolo”), questa specie di spirale, mi ricordava la lavatrice, il tritacarne, qualcosa che pulisce, che lava, ma che strizza anche. E in più è una macchina. E nel testo ci sono diverse macchine. Ubu a cavallo di una lavatrice è un’immagine abbastanza stravagante.  

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Com’è avvenuto il processo creativo insieme a Luigi Serafini?

Il lavoro è stato sin dall’inizio a quattro mani. Abbiamo tradotto e studiato insieme il testo. E sono usciti elementi nuovi, come Pulcinella: che non è una lettura astratta, ma filologica del testo. Perché Jarry si è ispirato a lui per scrivere Ubu, ma nessuno se n’era mai accorto. Poi lui ha cominciato a disegnare e io a stendere un storico, a dare i titoli alle scene, a capire come potevano essere i personaggi. È stato molto bello lavorare con Luigi (ndr, Serafini), perché a un certo punto si sono persi i confini tra il mio e il suo lavoro. Lavorare con gli artisti visivi è sempre stimolante, essendo io stesso un artista visivo. C’è sempre un bellissimo scambio. Luigi conosce il materiale patafisico come pochi altri, visto che è membro del Collegio di Patafisica.


Chi è oggi per te Ubu?

È l’uomo qualsiasi. Che si ritrova, suo malgrado, ad avere un potere senza essere minimamente in grado di gestirlo, facendo solo catastrofi. Quindi Ubu, a differenza di quanto molto spesso viene detto, non è un dittatore, non ha quella statura. E questa è la cosa tragica.

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Ubu è il personaggio chiave del Novecento. È predadaista, prefuturista, presurrealista, prepostmodernista, è la scintilla tardo Ottocentesca a Parigi che accende il Novecento e anticipa Brecht. È anche una figura morta molto giovane. Ha segnato la scena culturale in maniera radicale. Senza Jarry non ci sarebbe Duchamp.