Essere è abitare. Dalla città di vetro di Scheerbart ai sogni dı carta di Boulle, Ledoux e Lequeu

Essere è abitare.

Questa declinazione dell'ontologia nel campo dell'architettura che avvicina Parmenide a Frank Lloyd Wright e che potrebbe figurare contemporaneamente in un manifesto Bauhaus o su uno di quegli opuscoli, perfettissimi e colorati, che pubblicizzano comprensori avveniristici alle periferie di Milano o Dubai, è propriamente l'affermazione dell'uomo nel mondo.

Si esiste - dichiaravano già i peripatetici - in virtù di uno spazio e di un tempo (principium individuationis), la genesi è dunque nell'essere in un luogo, ossia nell'abitare (dal latino Habitare, aver consuetudine in un luogo). E mettendo da parte metafisiche e mistiche, che pure sono l'essenziale e quindi mirano a non essere, cioè a non abitare più alcun luogo e ad essere fuori dal tempo, la realtà si esaurisce in questo.

Essere e abitare, sono questi anche i due termini in cui si specchiano eternamente Caino ed Abele. "È" solo colui che abita in un luogo e dunque ne ha frequentazione come Caino, lo stanziale, il coltivatore. Ma Abele, che è vapore e nulla, si dissolve nell'aria come i nomadi, i pastori e i mongoli che molti secoli dopo nel vento scompariranno.

La scure di Caino affermando la morte sancisce la divisione tra essere e non essere, che è pure quella tra abitare e inabitare. Ma il mito sovverte e muta ed anche i destini si intrecciano e si capovolgono.

Tutto ruota e tace

dentro di me il suono

la metrica delle stelle

Adamo ed Eva trovano il corpo di Abele, W. Blake

Caino, condannato a vagare, diverrà il nomade e il paria mentre Abele nella terra sepolto, ad ovest di Damasco, potrà finalmente dire: Io sono. E trovare nella morte l'Essere, come tempo dopo profetizzerà in terra d'Israele un uomo o forse un Dio.

Chi erra, ci informa il mito con la grammatica delle allegorie e degli archetipi, non ha nome e come desumono cabalisti ed ebrei nelle loro sinagogiche clausure, solo nominandola la realtà perviene ad esistenza. Chi vaga dunque è colui che non ha radici, non è.

E tra questi flâneur senza patria e senza essere distinguiamo il profilo dell'ebreo errante, del folle (figura liminare tra essere e non essere), del viandante sotto le cui spoglie si cela Odino o Zeus, dello zingaro.

Contrariamente nel tornare a casa avviene il riconoscimento, si torna ad essere. Ed è così per Odisseo, l'eroe per dirla con Simon Weil radicato nell'assenza di luogo, che di fronte all'occhio ciclopico è Nessuno e che ritorna Odisseo ad Itaca, re dell'isola. Similmente Edipo nel tornare a casa realizza il suo destino.

"Neppure gli dei sanno dare conforto, camminano tra di noi indifferenti mentre brancoliamo nel nulla come falene schiantate dalla vertigine”

Essere è abitare.

Essere è abitare significa anche la comunanza, forse l’identità, tra l’uomo e i luoghi. Così quello tra il beduino e il deserto è un rapporto mutualistico e simbiotico come tra il coccodrillo del Nilo e il piviere egiziano.

Siamo i nostri luoghi e i volti ne portano il nome.

Visi d‘ebano in Africa, di lacca e avorio in Cina, labbra corniolo in Spagna. Prima della voce è il volto che informa chi siamo, ossia da dove veniamo. È la fisiognomica dei luoghi dove ogni uomo è un atlante e la carne si fa mappa viva del mondo. Le efelidi sono portolani che conducono a coste di belgi e irlandesi, e di un’altra la pelle sua chiara come antiche riminescenze e poi occhi da indiana che fanno da guida negli El Dorado. Qui si svelano le radici.

Ma i luoghi sono pure un riflesso dell'uomo e del dio che lì vi dimora (Genius loci). Così terra e mare erano patria e potestà delle molte divinità, ninfe che affollavano il mondo antico come oreadi, naiadi, driadi. Non è perciò remoto sostenere che i luoghi sono dei e la costruzione architettonica, in tal senso, diviene "realizzazione artigianale di un modello cosmico" scriverà Renè Guenon.

Si afferma dunque l'arte architettonica come scienza sacra, con un valore propriamente simbolico ed iniziatico. "Ogni edificio costruito seguendo presupposti strettamente tradizionali presenta nella struttura e nella disposizione delle varie parti di cui si compone un significato cosmico" ribadirà lo scrittore francese.

La città degli uomini diviene così una prefigurazione, annunciazione della Gerusalemme.

Ma già nel Rinascimento col tema pittorico delle Città ideali l'utopia si fa stanca geometria, mentre il sacro comincia ad adombrarsi nel culto antropocentrico. Da scienza sacra, com'era ancora nel medioevo con le maestranze e corporazioni create nel XII secolo --ma eco ben più lontana dei Collegia romani-- custodi di conoscenze tradizionali, l'architettura si fa attività custodi di conoscenze tradizionali, l'architettura si fa attività profana.

La “Città ideale”, autore sconosciuto, Urbino.

Delle città ideali di Leon Battista Alberti e Piero della Francesca rimarrà infine il ricordo e il senso enigmatico dell'essere in De Chirico, lì dove ancora sono in agguato pigre divinità e muse inquietanti.

Attendono divinità schive e leziose sotto il sole

e muse inquietanti ci rimirano,

da lontano ci interrogano

con la grammatica delle allegorie.

Nessuno si comprende, si tace sempre.



Nel ventre dell’architetto

Dalla consapevolezza del mutuo condizionarsi tra uomo e spazio lo scrittore tedesco Paul Scheerbart dirà: "La nostra civiltà è in certa misura un prodotto della nostra architettura".

E nel 1914 annuncia la civiltà del vetro e con esso l'avvento dell'uomo come filigrana, non più appesantito d'ingorghi e d'ornamenti, di quadri e di tappeti, di vasi cloisonne e poltrone Berger, di settemini e secrètaire in stile Impero. Uomini e case leggere come sogni o come cotone, così lontani dall'intèrieur borghese di Degas e Vermeer e così vicini alle tele di Fontana o Rothko.

"L'arresto del progresso --tuona-- è inconcepibile".

Ed è così che Scheerbart --nato nella stessa casa di Schopenhauer, di cui si sentiva la reincarnazione-- celebra nel Glasarchitektur il funerale alla vecchia architettura di mattoni e legno. Ferro, cemento armato e vetro dovranno essere la materia prima con cui erigere le nuove città. E che venga il regno del vetro colorato! Case che nelle notti d'inverno ed estate, notti silenziose, possano risplendere come una lucciola o un verme luminoso.

"Il futuro sta sotto il segno della trasparenza" gli farà eco Benjamin.

E in questa città di cristallo e di luci che abolisce il segreto, di vetro luccicante sono anche le automobili, i motoscafi, i treni variopinti. Nelle strade si alternano ora la cupola e la piramide, mentre le case si fanno simili a cattedrali gotiche o lampade di vetro babilonesi.

"Il nuovo ambiente di vetro opererà una completa trasformazione dell'uomo" sottolineerà Scheerbart nel Glasarchitektur. E in un mondo in cui non v'è più spazio per il segreto anche i confini vengono aboliti e l'uomo si fa più vicino al cielo.

Ma le città di Scheerbart, questo "cittadino onorario degli stati uniti della luna" come lo definirà Albert Ehrenstein, appartengono all'utopia come una Atlantide o una Città del Sole. E neppure il Glaspavillon di Bruno Taut, eretto nel 1914 a Colonia, servirà a dare matericità a quel sogno di vetro.

Bruno Taut, Glaspavillon (Padiglione di vetro), 1914

Le due guerre mondiali risveglieranno l'occidente dall'utopia di un mondo riformato nel vetro e nel cristallo e di un'umanità renovata in spiritu.

Alle città di Scheerbart, come quelle che il Kublai Khan di Calvino immaginava nelle sue notti insonni insonni --"città leggere come aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenti come zanzariere- si opporranno adesso solo rovine.

Un paesaggio a se che si fa memento mori.


L’inabitabile

L’architetto, oltreché un poeta e matematico, dev’essere anche maestro di belle maniere, ingoiatore di rospi e "charmeur", danzatore con vecchia signora, incantatore di serpenti.

Carlo Mollino


Se dunque l'uomo è quel mortale demiurgo che dà forma alla natura e allo spazio che lo circonda, con forza uguale e contraria agisce in noi il paesaggio e l'architettura.

E lo sapevano Basilide e i Padri del deserto, monadi di silenzio che il vento sperde e sgrana nella sabbia come le loro filosofie. O gli indù persi nella giungla con le proprie geneaologie celesti che simili ad arborescenze si diramano in ogni direzione.

Tutto quel paesaggio opera in noi. Modifica il nostro essere, il pensiero, i sogni, fino a toccarci l'anima. A quali teofanie dovevano dar origine gli inquieti templi aztechi, quali i sogni che nascevano all'ombra di Babilonia coi suoi leoni posti a guardia di immensi palazzi?

Immaginiamo un mondo a misura di Boullèe, in cui l'architettura gioca col sogno e l'utopia, e ipertrofici mausolei impegnano l'orizzonte. Immaginiamo l'uomo che uscito da casa o di ritorno da una boulangerie attraversi le strade d'una città euclidea o pitagorica --di forme pure -- dove cubi, piramidi e sfere collassano nel cielo come un secondo sole.

Étienne-Louis Boullée, Cenotafio di Newton, 1784.

E dovunque lo sguardo vedrà stagliarsi più alto dei palazzi e dei grattacieli il Cenotafio di Newton eretto da Boullèe. E poco più in là ecco la Mètropole, l'immensa Chiesa Metropolitana, o "il Poema Epico dell'architettura" per rendere culto all'Essere Supremo, come istituito dall'Assemblèe Nationale di Parigi.

E di questa città che allude all'uomo come formica o come insetto partecipano anche Ledoux, le cui gigantesche torri e le smisurate piramidi rivaleggiano col cielo.

Intanto nelle campagne la Casa delle guardie di Ledoux --docile e immensa sfera-- affonda nel terreno come in attesa d'uno scarabeo che la porti via. E pure sembra anticipare le illustrazioni alla "Guerra dei Mondi" e il suo immaginario dal design già novecentesco.

Ma qui l’essere umano è un ospite, quando non è assente, e lentamente scivoliamo nell’architettura parlante in cui le forme indicano già la funzione degli edifici e dalle chimere di Babilonia passiamo alle chimere di Lequeu.

Nelle tavole dell’Architecture Civile si manifesta un mondo nuovo, parallelo al nostro e le cui regole ci sfuggono. Troviamo allora il Tempio della Divinazione al cui interno un profumo aromatico serve a produrre un dolce vapore e ad instillare i sogni al cervello durante il riposo. Da un’altra parte osserviamo la Pagoda Indiana dell’Intelligenza il cui intonaco è fatto di calce mescolato con zucchero e latte.

Ed ancora, l’Isola dell’Amore e del Riposo -non lontana dalla piazza di Marte della Città Reale- dove, a dispetto del nome vivono il Serre che divora gli uomini e l’Embamana che inghiotte cervi e scimmie bianche tutte intere.

Jean-Jacques Lequeu. Architecture Civile

E dunque ai margini dei fogli che quest’universo prende vita, Lequeu lo popola d’una congerie animale e vegetale che elenca con lo scrupolo d’un tassonomista in una scrittura fittissima. Nel bosco degli amori di Venere e Adone si celano così ibis, pappagalli, fenicotteri e vicino bosco degli amori di Venere e Adone si celano così ibis, pappagalli, fenicotteri e vicino gli specchi d’acqua cigni, pan, pellicani ma anche tigri, leoni, liocorni e draghi all’interno delle loro gabbie.

“Questi inventari sono la bolla di accompagnamento del serraglio fantastico che ha caricato sulla sua arca di pietra e che, chiuso sotto la superficie del disegno, abita ora le apparenze della sua Isola dell’Amore” scrive Ann Grieve a proposito del Mondo Nuovo di Leque.

A quali metafisiche nate sotto la Pagoda Indiana dell’Intelligenza abbiamo infine rinunciato?

Di quest’universo fatto di un marmo leggero come i sogni restano le tavole dell’Architecture Civile e il lapis che traccia le orme per il Teatro Persiano dell’Innocenza, mentre tra una pagina e l’altra templi vuoti rimangono in attesa dei loro dei.

Con la stessa attenzione degli etnologi o dei botanici a lui contemporanei Lequeu ha esplorato i paesaggi dei suoi sogni e in quei sogni su carta è infine sparito.