Davide De Maria, “La Bellezza di Loulan”

È successo in passato che i corpi mummificati di donne consegnati all’eternità dall’aridità di certi deserti - e sì, anche grazie all’abilità degli imbalsamatori, ma questo è un altro racconto - abbiano suscitato negli uomini tali sensazioni erotiche da travalicare la ripugnanza, l’illogicità dell’attrazione.

Nel corso dell’Ottocento le mummie che dall’Egitto giungevano in Europa venivano non di rado sbendate pubblicamente, in quelli che avevano l’apparenza di incontri scientifici ma che in realtà erano veri e propri spettacoli richiamanti centinaia di curiosi. I corpi venivano lentamente liberati dalle bende millenarie, rimanendo nelle proprie nudità di fronte all’eccitazione del pubblico. Frammenti di bende passavano di mano in mano, per saggiarne la morbidezza, per annusarne l’odore di spezie e oli profumati che ancora, dopo millenni, ne impregnavano le fibre.

Si scopriva che le mummie non erano repellenti, anzi!, quando sul tavolo si sbendava con lentezza il corpo di una donna, quando capitava che sciogliendone le fasciature del volto se ne rivelassero i capelli ancora fluenti ed i tratti resi più affilati - e più seducenti - dalla disidratazione, Eros aleggiava sulla folla, mentre Thanatos giaceva sulla cattedra al centro della sala. A quell’epoca le mummie, nell’immaginario collettivo, erano quasi esclusivamente femminili, antiche principesse che dalla morte dovevano essere salvate, di bellezza esotica ed erotica. Non creavano repulsione, bensì solleticavano fantasie erotiche, incarnate nei ninnoli prodotti e venduti in quegli anni come quelli bellissimi di Franz Bergman: sarcofagi in miniatura che si aprivano per scoprire la statuetta dorata di una formosa donna nuda.

Le mummie erano attraenti, salvo poi, con lo scavallamento del secolo e il progresso nelle materie dell’archeologia, ritrovarsi con le mummie poste dietro ai vetri delle teche dei musei, distanti nell’odore e nel tatto dal pubblico, che era divenuto nel frattempo visitatore; la conservazione museale di quelle creature secche le ha rese però più distanti e, nelle fantasticherie ora più inconsapevoli dei visitatori, è cresciuta l’infondata fama delle mummie come corpi nauseabondi e spaventosi che ancora oggi, diciamolo, ha maggior diffusione. Le mummie da donne sono diventate uomini, da sensuali sono diventate mostri.

Ecco che però Davide De Maria, giovane scrittore genovese, alita sulle braci quasi spente dell’essenza erotica del corpo mummificato e dà nuova vita - è il caso di fare questo gioco! - ad una di esse.

Non dalle sabbie egizie, ma da quelle di un altro deserto - quello del Taklamakan, nella valle del fiume Tarim - De Maria trasporta fino a noi lettori il superbo corpo di una donna vissuta circa quattromila anni fa, secolo più secolo meno. Di innegabile fascino, ella ha evidenti tratti caucasici, pur trovandosi nell’odierna regione dello Xinjiang. Senza aprire la porta delle dissertazioni storico-antropologiche, la peculiarità è rimarchevole.

La bella mummia di Loulan, come viene chiamata, era una mia vecchia conoscenza. In effetti, magia della risonanza, ho una certa dimestichezza con le mummie - ecco perché ne sto parlando così largamente, mi si perdoni -, avendo studiato quelle egizie per la mia tesi di laurea e rivolgendo verso esse, non lo nascondo affatto, una certa passione. Quando quindi ho riconosciuto nel titolo di De Maria il “caro nome” che conoscevo, con mia felice sorpresa, la mia curiosità lettrice è diventata famelica.

Cosa ci fa una delle mummie della valle del Tarim in un romanzo? Ebbene, vale la pena qui dire giusto un paio di parole su questa strana  trama dagli elementi atipici, benché raccontar trame sia tanto noioso: il protagonista Claudio, giovane poeta - che però si chiede se sia davvero un veggente -, vede la mummia, la Bellezza di Loulan, in una mostra. Non credo si possa dire che se ne innamori, tanto l’azione è subita più che esercitata; si dovrebbe dire, piuttosto, che la mummia lo innamora, comincia ad ossessionarlo e dalle sabbie del Taklamakan lo lega con il crine di un incantesimo arcaico. La Bellezza, una sorta di maga o di dea, si impadronisce della mente del poeta, lungimirante nonostante le sue incertezze, e gli comanda il sacrificio del fuoco per poter tornare a vivere. Ella agisce per mezzo di sacerdotesse, di ninfe inquietanti senza volto e fatte di capelli che allacciano Claudio e lo trascinano in voluttuose visioni umide, profondamente erotiche.

Claudio, monomaniaco, discerne con fatica la realtà dalla visione. Seguendo un percorso simile ma contrario a quello che lo proietta nel Taklamakan, tramite l’amico Mauro ed il mezzo alcolico, Claudio tenta di ricostruire il suo recente passato che, obliato dalla memoria, lo ha portato, ubriaco e con una strana bruciatura sulla bocca, a barcollare nei vicoli notturni di Genova. Un’altra donna, viva, abita questo passato: Agnese, una sorta di seconda maga, stavolta viva e lattea, che comanda anch’essa, a modo suo, il rito del fuoco.

Nell’intrico di veri ricordi dimenticati e di false visioni vivide, la scrittura di De Maria sceglie la via della lingua parlata. Non ci sono pressoché discorsi diretti, se non fra semplici virgole, fluentemente consecutivi alle parti di narrazione o descrizione: se la vicenda è un groviglio, la scrittura non lo è. De Maria ha l’eleganza un po’ ruvida di chi usa sapientemente la lingua parlata sotto forma scritta, senza venir mai meno, pur strizzando l’occhio al dialettismo, alla correttezza.

Con questa scrittura senza fronzoli e senza errori De Maria riesce anche a creare scene di grandissimo patetismo, come quella del rosario di Giacomino: a quelle pagine, e ad ogni piccola invettiva contro le superstizioni modaiole e piccolo borghesi, va il mio personale applauso.

De Maria ha talento. Dobbiamo capirci: una mummia come musa è un elemento davvero complesso da gestire. Il passo dalla graziosa lascivia delle statuette di Franz Bergman alla bomboniera pacchiana è breve. Ancor più breve, oggigiorno, è il passo che conduce all’horror trash tanto di moda, o ancora alla melodrammatica, sdolcinata rievocazione del passato, senza filologia alcuna. De Maria, invece, ha dato prova di tale abilità da riuscire, indenne, a far risorgere - sì, continuo il gioco! - l’erotismo del corpo, che sia vivo o morto poco importa, senza indugiare sui pericoli di unire nel suo racconto i due principali tabù dell’epoca moderna: il corpo e la morte.

Le sue visioni, lungi dall’essere affettate e artefatte finzioni, hanno il turgore della carne viva, sono ordinate, si collocano nel tassello corretto dell’ordine cosmico e lì vivono, plausibili. Plausibili è davvero la parola giusta, perché ovviamente sono visioni irreali immaginate da un autore e vissute da un personaggio, ma hanno la loro ragion d’essere nella causa legittima del loro inizio: l’irresistibile fascino esercitato dal millenario corpo senza vita, incorrotto, di una donna bellissima.

Le illustrazioni di Daniele Bossi, magnifiche, immortalano - ed il gioco continua - le diverse realtà di Claudio e proprio la diversità le caratterizza, essendo ognuna di esse un quadro autonomo: le ninfe, il vicolo, il rito diventano tre elementi indipendenti che danno l’idea delle molteplici facce di questo racconto (e anche del talento di Bossi).

Qui mi fermo, con mio rammarico: la mia passione personale e l’entusiasmo per “La Bellezza di Loulan” mi porterebbero ad essere ancor più prolisso, ma che l’autore lo prenda come un sincero complimento!
Ancora, bravo Davide De Maria.