Cosa manca di uno spettacolo teatrale e del costruttore Solness con Umberto Orsini

 

Appena finisce lo spettacolo, via subito con la recensione. La persone vogliono sapere, si devono informare e (se gradiscono) potrebbero anche andare a teatro. Qual è allora il senso di scrivere un articolo trascorsi 13 giorni dall'ultima replica de Il costruttore Solness di Henrik Ibsen al Teatro Eliseo? La domanda è ancor più legittima se si pensa che su Wikipedia si può trovare la trama e su Vimeo c'è il video (un pezzo) della rappresentazione con Orsini.

Lo guardo di nuovo. Montato in modo perfetto: un grande trailer, niente da dire. Ma più lo vedo, più riaffiorano i ricordi e più manca qualcosa. Ovvio, direte voi, sono solo tre minuti. Non è però una questione di tempo né di contenuti. Che si tratta di uno spettacolo introspettivo lo si intuisce, che ci sono grandi interpreti anche. E allora cosa manca?

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Apro le note sul cellulare, cerco "costruttore Solness" e trovo qualcosa che non ho visto, letto o sentito altrove. "Mai un urlo. Mai un gesto scomposto. Mai una battuta fuori posto, più alta o più bassa delle altre. Ha la misura di ogni cosa che lo circonda: spazio, tempo, persone. Il controllo di tutto e su tutto, anche del pubblico. Si entra così in intimità con l’attore, con l’opera e con il palcoscenico, che sembra davvero trasformarsi nel salotto di casa del costruttore Solness". Guardo ancora il trailer. Niente. Non la trovo. Quella sensazione che mi aveva portato a scrivere quelle parole è svanita, scomparsa. Quanto dura un'emozione? Molte domande non hanno una risposta. Eppure qualcosa deve essere rimasto. Allora clicco nuovamente su play e mi concentro sull'ascolto.

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A ogni nota del pianoforte sento un suono dentro di me. È come se quei tasti fossero ormai parte del mio corpo. Una musica lontana, ma pur sempre presente. Quello che abbiamo visto, scritto e ascoltato ci accompagna in ogni istante, senza far rumore. Rimane lì, come presenza indelebile e ci accompagna per tutta la vita.

Ma ora è davvero il momento di fare silenzio, perché lo spettacolo sta per cominciare.

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I lumi si accendono e si spengono, suona la campanella per invitare gli spettatori ad entrare. Tutto è pronto, si apre il sipario. Ma dietro c'è un muro. Grigio, spesso, impenetrabile. È formato da giganti pareti verticali che iniziano a piegarsi, svelando la scena. Seduta su una scrivania c'è la contabile di Solness, sta scrivendo a macchina. Non è l'unica donna legata al costruttore. C'è anche sua moglie e Hilde, una giovane ragazza che dice di essere stata baciata da lui quando aveva 13 anni. Sarà vero oppure è un sogno? Desiderio o realtà?

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"Solness si nutre della vita delle donne che lo circondano - spiega il regista Alessandro Serra nelle note di regia -. Ma la giovane Hilde, che decide di fare irruzione con una energia sottile e implacabile, gli sarà fatale e lo accompagnerà, amandolo, fino al bordo del precipizio". Perché Solness nella vita sarà stato anche un imprenditore di successo, ma come uomo ha spesso fallito. Ha perso un figlio, ha perso l'amore della moglie e ha perso la stima del suo giovane collaboratore.

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"L'opera di Ibsen è la storia di tanti assassinii – spiega Umberto Orsini, interprete del protagonista–. Giovani che uccidono i vecchi spingendoli a essere giovani e vecchi che uccidono se stessi nel tentativo di raggiungere l’impossibile ardore giovanile". Un conflitto che si è avuto anche dietro le quinte. Molto giovane il regista Alessandro Serra, molto più esperto l'attore Umberto Orsini. Solo che in questo caso non c'è stata rivalità, ma un'intensa collaborazione che ha portato a un grande risultato. A uno spettacolo dove si intrecciano potere, erotismo e sogno. Soprattutto quello del protagonista di arrivare laddove gli altri non riescono, a qualsiasi costo.

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La natura difforme e sfuggente del personaggio di Solness, una sorta di mostruosità latente, ha suggestionato persino i due attori Judith Malina e Julian Beck che lo hanno introdotto nello spettacolo Frankenstein (1965), sublimandolo nel ruolo del creatore del mostro, colui che persegue con efferatezza la ricerca dell’impossibile. D'altra parte Solness crea palazzi sempre più alti per sentirsi vicino alla divinità. Così usava la popolazione inca, così usiamo noi. Ci vogliamo sentire invincibili, ma ci scordiamo di quanto siamo vulnerabili. Per Solness il nemico invisibile sono le vertigini, per noi un virus, che ci ha fatto riscoprire di essere umani.