Caravaggio e Artemisia a Palazzo Barberini, una mostra di decapitazioni

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1620 circa, Firenze, Galleria degli Uffizi.

Il museo di Palazzo Barberini ospita la mostra Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento (26 novembre 2021 – 27 marzo 2022), presentando ventinove quadri dal forte impatto visivo e drammatico. Si tratta di un evento realizzato per celebrare la ricorrenza dei cinquant’anni dall’acquisizione di Giuditta e Oloferne (1597) di Caravaggio, coincidente a sua volta con i settanta anni della sua scoperta, omaggiando l’opera per il suo valore intrinseco ma anche per l’impatto prorompente che ha avuto sui pittori coevi e seguaci al momento della sua realizzazione. Tale notorietà si è propagata fino ai giorni nostri attraverso alterne vicende di fascinazione e rifiuto, raggiungendo infine un riscatto e un successo indiscutibile, trasformando l’artista in un’icona oggetto di un vero e proprio culto. Un’altra opera di un'altra figura altrettanto “iconica” risponde al capolavoro caravaggesco, e occupa un ruolo di preminenza all’interno della mostra. Si tratta della Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613) di Artemisia Gentileschi, pittrice che a sua volta definiremmo “mitologica”, incensata oggi dalla critica e dalla cultura pop (sebbene in modo nettamente differente), il cui nome è stato oggetto di quasi altrettanti aneddoti, vicende reali e inventate, riscritture filologiche e narrazioni romanzesche che hanno creato un vero e proprio mondo dietro la sua immagine e la sua opera. Un mondo che spesso ha concorso a rendere di scottante attualità episodi della sua biografia, o almeno quanto di questi è stato trasposto attraverso un linguaggio – come si direbbe oggi – accattivante ed empatico.

La seconda sala.

EROTISMO PERICOLOSO

Intitolando la mostra a questi due giganti dell’arte moderna, il grande pubblico viene attratto e portato a scoprire la significativa quantità di altri nomi, meno celebri ma non meno importanti, che hanno svolto un ruolo storico essenziale nella produzione artistica del loro tempo. Facendosi interpreti di influssi lontani e determinazioni contestuali, questi ci aiutano a “leggere” la complessità di un fenomeno - quello del caravaggismo e delle sue variazioni - e di un tema, quello della decapitazione, che nella forza evocativa di effetti spettacolari e drammatici ha portato a galla immaginari primordiali di violenza e sadismo, che hanno anche contribuito a costruire raffinatissime fantasie di sottile erotismo.

Caravaggio, Giuditta e Oloferne (1597).

I mille volti della decapitazione

In questo scenario, Il Museo Nazionale d’Arte Antica risulta essere una sede emblematica. Il Seicento è significativamente rappresentato dalla collezione permanente del Palazzo, e mostra nella sua ricchezza e varietà una moltitudine di opere romane, italiane e straniere in un terreno di incontro e scambio spesso ibridato, segnato dalla specificità delle singole poetiche come della diretta influenza di scuole e costanti figurative e simboliche di corti, committenze pubbliche e private, sovente rappresentative di precisi snodi temporali come di momenti di frattura eclatanti e fertili. Posizionandosi in questo contesto istituzionale, la mostra racconta storicamente e criticamente il processo artistico di numerosi artisti che hanno accolto le intuizioni pittoricamente geniali dei capolavori di Caravaggio e Artemisia Gentileschi, coltivandole e sviluppandole – direttamente o indirettamente - nella ricerca di una cifra individuale propria, sondando possibilità artistiche offerte da questo patrimonio figurativo talvolta in maniera letterale (riprendendo elementi identificativi ricorrenti, come i drappi rossi usati per semantizzare lo spazio in termini teatrali), talvolta in maniera metaforica, facendosi interpreti della loro essenza più intima e per certi versi rivoluzionaria. Nel caso di Artemisia risulta particolarmente evidente quest’ultimo approccio “critico”, in quanto emergendo dall’ombra del primo la sua identità appare più difficile da cogliere ad uno sguardo inesperto, mentre il suo contributo risulta oggi particolarmente rilevante grazie alla rilettura offerta da una tradizione di studi di marca femminista a partire dagli anni Ottanta, spesso ingiustamente accusata di aver propagandato un’immagine stereotipata e “moderna” della sua opera e della sua figura.

Artemisia Gentileschi, Giuditta con la sua ancella (1618-1619).

un allestimento “intenso”

Nella scelta della divisione e distribuzione in sale il percorso espositivo mostra una prospettiva corale (piuttosto cupa), offrendo una costellazione di rappresentazioni molto fitta, che conferisce un evidente protagonismo alle due tele delle Decapitazioni. La resa scenografica dell’allestimento è sottolineata dall’uso enfatico di luci ed ombre che sembrano richiamare l’atmosfera di molti dei dipinti esposti. Attraverso questo espediente immersivo ci possiamo sentire vicini al cuore pulsate (e sanguinate) di un processo artistico in atto, vicini ad una genesi creativa che ci avvicina alla cultura visuale dei pittori dell’epoca. Queste opere, poste su pareti rosso cupo ad un ritmo pesante e incombente, amplificato dalla scelta dei soggetti rappresentati, mostra come nessuno di questi “casi” sia mai restato isolato, tessendo una trama di relazioni che rivela come ciascun attore in questa vicenda quasi teatrale ha condiviso, rifiutato e innovati codici e motivi dei loro illustri predecessori, contribuendo alla vitalità di un Secolo e al suo immaginario.

Tintoretto, Giuditta e Oloferne (1577).

Scene di dramma assassino

Al termine del mio percorso di visita, pensando proprio al ruolo immaginifico di tutte queste visioni che mi si affollano nella testa, sorge dentro di me un interrogativo che improvvisamente sovrasta tutti i discorsi precedentemente fatti. Sono sedotto e schiacciato per certi versi dalla violenza a cui sento di aver assistito, quasi con il ruolo di complice, e per quanto tali decapitazioni restino qualcosa di mediato, fittizio, altro dalla mia esperienza reale, non penso sia così saggio separali così nettamente. Mi chiedo dopo aver visto questa profusione di teste mozzate, schizzi di sangue, corpi riversi e ostentati come relitti o trofei, quale esigenza interiore, sociale, culturale possa aver spinto la società non solo a creare, ma anche ad accettare in seno ad essa rappresentazioni di un realismo così urlante. Sento di essere veramente passato attraverso una carneficina, e tale sensazione non mi è stata trasmessa soltanto dal soggetto delle rappresentazioni (non ho empatizzato con le vittime o con i carnefici), quanto da un linguaggio artistico, dalla sua forza espressiva che ha reso ciascuna di queste esecuzioni qualcosa di definitivo, fatale, sebbene in modo diverso.



Attualità e visioni ancestrali

Nel 2016 lo storico dell’arte Giorgio Leone, all’interno del suo studio sulla storia delle decapitazioni nei caravaggeschi (“La rappresentazione della decapitazione, tra devozione ed esecuzione capitale, da Caravaggio ai caravaggeschi”, in Kawase Y., Vodret R. Caravaggio and his Time: Friends, Rivals and Enemies, ,The National Museum of Western Art, Tokyo, 2016, pp. 292-293), teorizza che due eventi pubblici avrebbero arricchito l’immaginario dei pittori romani: il ritrovamento delle spoglie di Santa Cecilia e la decollazione di Beatrice Cenci, a cui avrebbero assistito Caravaggio insieme ad Orazio e Artemisia Gentileschi, allora una bambina di sei anni. Inorriditi dalla brutalità di tale esecuzione, questa visione li avrebbe turbati senza tuttavia respingerli, portandoli piuttosto a muovere la loro ricerca artistica verso rappresentazioni aderenti a quanto visto dai loro stessi occhi. Rifiutando il filtro di rappresentazioni pittoriche edulcorate sul tema della decapitazione, prodotte dalla tradizione di artisti che li aveva preceduti, avrebbero accolto nella loro arte l’attualità del loro presente storico. Uno sguardo così svincolato da codificazioni pregresse e inibizioni inconsce a mio avviso avrebbe permesso anche il recupero di qualcosa di passato in senso altro, appartenente ad una temporalità antica e arcaica: quella di uno spazio psichico. Il pericoloso fascino esercitato da queste “visioni fatali” secondo Julia Kristeva ricalcherebbe un preciso meccanismo antropologico e psicanalitico, ereditato da pratiche e rituali presenti fin dalle civiltà più remote, che eleggevano la testa senza il corpo quale oggetto spirituale. Nel catalogo della mostra dedicata a tale tema del Louvre, Visions Capitales (1997), la studiosa sottolinea quanto il motivo della perdita della tesa sopravviva e si sposti dalla dimensione religiosa a quella artistica, mostrando così un retroscena oscuro capace di dirci molto del nostro rapporto con l’invisibile. Tale trasformazione segnerebbe:

 Un momento in cui l’essere umano non si è più accontentato di copiare il mondo circostante ma, grazie ad una nuova e intima percezione della propria capacità visionaria, grazie ad un ripiegarsi straordinario della propria abilità di rappresentare e pensare, ha voluto portare alla luce quella stessa intima soggettività: quella sensibilità interiore, quella spiritualità, quell’amore riflesso, economia di angoscia e di piacere, la sua anima. L’esplorazione dell’invisibile molto probabilmente l’ha messo a confronto con la morte, l’invisibile fondamentale: con la scomparsa della nostra forma corporea e delle sue parti più sporgenti, la testa, gli arti e gli organi sessuali, prototipi della vitalità.

(Kristeva J. Visiones Capitales, Réunion des Musées nationaux, Paris, 1997, trad. it. di Alessia Piovanello, La testa senza il corpo, Donzelli, Roma, 2009, p. 7).

Che la spada dell’aguzzino giustizi Oloferne, Golia, il Battista, il tema della decapitazione riporta ugualmente a galla nella messa in scena degli episodi biblici questo spettacolo primordiale, capace di farci sentire la tragicità della nostra esistenza. Nel pathos che li contraddistingue, ciascuno dei quadri presenti in mostra merita di essere contemplato riscoprendo e accogliendo l’insondabilità di quel mistero assoluto, simboleggiato in questo caso da una testa che viene meno.

Louis Finson, Giuditta che decapita Oloferne (1607).