Isolation: il John Lennon solista

 
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Il 30 Gennaio 1969 sui tetti della Apple Corps i Beatles pongono fine alla loro carriera come band con un concerto leggendario e sui generis. Improvvisato il palco su di un piccolo terrazzo prende vita il “Rooftop Concert”, letteralmente il concerto sul tetto. I quarantadue minuti che seguiranno sono annoverati nei libri di storia della musica contemporanea. I Fab Four, impellicciati per il gran freddo, sorprendono una Londra assonnata dal grigiore e saranno soltanto le forze dell’ordine a fermare quella magica performance che univa gli scarafaggi ai pochi passanti fortunati nella sottostante Savile Row.

L’anno successivo esce Let It Be, album numero dodici e postumo a tutti gli effetti, poiché i Beatles non esistevano più. Il 1970 segna così l’inizio delle carriere soliste di Lennon, McCartney, Harrison e Starr.

 
 

John viveva con la sua venerata Yoko un amore totalizzante che travalicava la sfera sentimentale. I due erano anime gemelle anche artisticamente, e il primo lavoro in solitaria di Lennon non poté che chiamarsi Plastic Ono Band. Quattro rintocchi di campana e via con l’urlo primordiale di Mother per continuare con la chitarra acustica di Working Class Hero, folk ballad in pieno stile Bob Dylan. Poi la straordinaria Love e l’immensa God, in cui in preda a un violento raptus nichilista John abbatte ogni credo e accartoccia ogni idolo, rinnegando addirittura Elvis, Robert Zimmermann – più noto come Bob Dylan - e gli stessi Beatles. Per credere solamente in lui e in Yoko, in quella che è e sarà una rinascita.

 
 

Ma la traccia in questione è Isolation, assai in voga con i tempi che corrono già partendo dal titolo. In un passo a due educato e minimale tra piano e batteria – c’è l’amico Ringo Starr alle pelli – Lennon è il profeta che racconta l’oggi in pochi versi. Ogni tanto le mani scappano sui tasti che vorrebbero fuggire verso un riff che viene appena accennato e immediatamente spento, perché non servono distrazioni e bisogna concentrarsi sul testo e sulla voce. Il mondo che diventa piccola città, la paura dell’altro e un pianeta affannato al quale non rimangono molti anni sono gli affreschi di questo ventunesimo secolo, così lontano dalle logiche della natura, e di un 2020 marchiato indelebilmente dalla pandemia. Come se John in qualche strano modo sapesse e avesse avvisato il mondo attraverso un messaggio di poche e potenti parole. Nel percorso autoanalitico di Plastic Ono Band si scoprono le ferite invisibili e non suturabili dell’ex Beatle, quelle che portano il dolore individuale a farsi collettivo. Un disco terapeutico e forse d’aiuto in questi giorni di cattività.

 
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