L'artista immortale. Perchè il mito di van Gogh ossessiona il cinema?

Brama di vivere (1956) di Vincente Minelli

Quante volte abbiamo sentito parlare di van Gogh? Quante volte l’abbiamo visto in un film, in un libro, in un post, sui manifesti, citato in una conversazione, ridotto a stereotipo, marionetta o grande, illustre meastro. Tutti riconosciamo il suo volto, lo sguardo stralunato e la chioma rossastra. Si potrebbe dire che la nostra cultura sia ossessionata da van Gogh. Probabilmente molti di noi sentono nel proprio intimo una particolare connessione con le sue opere, con La notte stellata, I girasoli, La camera di Arles, e così via. La sua figura incanta perché ancora oggi, nonostante pagine e pagine di studi, egli rappresenta sempre e comunque una chimera, sia per il pubblico generico che per gli “addetti ai lavori”. Il suo mistero è ancora vivo, e scorre fra di noi, pronto ad essere rievocato e rivissuto in numerose forme artistiche. La sua opera parla, e il cinema più di qualsiasi altro linguaggio si è dimostrato ricettivo nei confronti di questo universo fortemente evocativo, lirico e apocalittico.
La sua vicenda storica è stata oggetto di numerose narrazioni, spesso dimenticando il portato rivoluzionario della sua opera, trattata come mera illustrazione, a favore del sensazionalismo drammatico. Storie per immagini che hanno esplorato zone buie del suo vissuto privato, spettacolarizzando eventi ed episodi che hanno lasciato il solco nell’immaginario collettivo, trasformandosi in aneddoti e cliché che passano sulla bocca di tutti. Un dramma, verrebbe cinicamente da affermare, tremendamente telegenico. Ma in tutto ciò, cosa ci dice il cinema del mistero e del mito di van Gogh?

Vincent my friend

Da Alain Resnais a Julian Schnabel, si contano circa una ventina di film che raccontano il suo viaggio artistico ed esistenziale. Il mondo cinematografico ha osannato l’artista olandese al pari altri celebri personaggi del sistema dell’arte, come Jackson Pollock e Pablo Picasso. Per quale ragione? Grazie alla presunta capacità della sua opera di parlare “empaticamente” con un pubblico molto vasto e variegato, veicolando contenuti contradittori e intensi, capaci di smuovere la sensibilità in maniera apparentemente immediata. Apparentemente, appunto. Molti film hanno tentato di dialogare con la biografia e la ricerca artistica di questo “genio maledetto”, secondo uno stereotipo radicato e condiviso, che ha unito indissolubilmente il dramma della sua esistenza agli abissi vertiginosi propri della sua pittura.

A Roma, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, la celebre mostra monografica del 1988 ha visto affollare le sale della galleria di una moltitudine di opere e persone, riscuotendo grandissimo successo. Evento dell’anno, tale episodio ha rappresentato un momento storico per Roma e la sua vita culturale, contribuendo a rafforzare il mito di van Gogh in Italia.


La pellicola hollywoodiana Brama di vivere (1956) di Vincente Minelli, celebre regista di musical, fa da apripista in questa tradizione. Tratto dal bestseller omonimo di Irving Stone, tale film mette in scena un Kirk Douglas caleidoscopico che ha esaltato il pubblico di tutto il mondo, ottenendo un sucesso grandioso. Il suo Van Gogh è quello che più di tutti interpreta la parabola mitica che ha strutturato il nostro immaginario. Nel corso della narrazione, infatti, il suo personaggio subisce una drammatica metamorfosi fino all’autodistruzione finale, nel campo di grano davanti al presunto ultimo dipinto, Campo di grano con volo di corvi (1890).

Immaginamo la scena, immergiamoci nella natura e nel silenzio. Potrebbe essere un bel finale, e invece non termina così la storia. C’è un’ultima scena prima dei titoli di coda. Tempo dopo, raccontando della sua fine poetica e struggente, vediamo una suora descrivere la luce e la bellezza di quel momento, come se dopo il trapasso la sua anima fosse stata trasportata nel paradiso della sua opera. L’oro delle distese coltivate, assolate nella splendida cornice del sud della Francia, rifulge alla stregua del bagliore divino dei campi elisi. I registi e gli sceneggatori si divertono con van Gogh. La sua opera è talmente contraddittoria e aperta a possibili reinterpretazioni che possono calcare la mano sulla sua depressione, così come possono sperare in un impossibile happy ending, mettendo in scena un epilogo come questo. Il pubblico commosso può infine godersi l’agognata catarsi.
Cose del genere succedono solo a Hollywood? Anche le logiche di mercato attuate dalle istituzioni culturali della nostra società hanno mirato ad un preciso obiettivo, quello di rendercelo più “vicino”, prossimo. Van Gogh così ha finito per incarnare desideri e sofferenze sepolte nella nostra interiorità, massa confusa di emozioni richiedenti una messa in forma estetica, per essere sublimate e apprezzate. Ma quanto di tutto ciò è “autentico” (parola oggigiorno impossibile da impiegare senza virgolette) e quanto mero spettacolo? Il confine è labile, e la risposta non può che essere sfumata, e quindi argomentata.

Parlando di empatia, cosa c’è più “empatico” di una tazza di caffè?

Il mito dei miti dell’arte contemporanea


I primi a farsi interpreti dell’esperienza di van Gogh-artista sono stati proprio gli attori del mondo dell’arte, galleristi, artisti, seguaci, ammiratori, e… speculatori. Ricamare sulla sua storia personale è stato funzionale a trasportare questo artista fuori dal mondo dell’arte, per rendere il suo mito veramente universale. È così che il dissidio con Gauguin è diventato più mediatico della Sedia di Gauguin (1888), nonostante questa opera raccolga tutta la complessità e la tensione di un rapporto che non si può inquadrare, e banalizzare, nei rigidi schemi di rivalità/amicizia/amore. C’è chi, come Antonin Artaud, prima della deriva pop del mito vangoghiano, ha rivendicato il valore culturale di un artista che con la propria ricerca artistica ha squarciato il velario delle ipocrisie borghesi. Alla fine anche la sua riflessione è stata assorbita nelle maglie dell’industria culturale, finendo per alimentare la macchina del culto che si è costruita attorno alla sua figura, divenuta astratta e ieratica. Van Gogh come santo moderno, senza grazia, vittima designata dalla natura crudele, in un mondo privo di trascendenza.
 

Generica esperienza immersiva di van Gogh, in cui le opere sono trascese, così come la distanza con il pubblico.

Il mito pop e il mito elitario

Le etichette della follia e dell’alienazione sono state spesso associate all’immaginario pittorico di van Gogh, spingendo l’interpretazione ad eccessi di psicologismo e voyeurismo che hanno finito per far passare le opere in secondo piano. Nel mondo dei musei questa tendenza ha dato luogo a due opposti atteggiamenti. Infatti, oltre questo schieramento, che gioca la carta dell’empatia e dell’immedesimazione, c’è un'altra prospettiva, quella esemplificata da esposizioni “scientifiche” e rigorose che hanno proposto ricostruzioni filologiche del vissuto e dell’operato dell’artista. Tutto ciò sarebbe ammirevole, se non si dimenticasse del contesto e delle implicazioni culturali che fanno parte integrante della sua opera. Si vuole fuggire dal mito solo per istituire un’altra mitologia. Basti pensare alle derive ossessive di certi studi, che rispettando pedissequamente standard accademici per sfociano nel puro delirio documentario e archivistico. C’è chi si è interrogato su che tipo di amputazione avrebbe subito l’orecchio (reciso totalmente? Parzialmente? Solo il lobo?), oppure chi si è soffermato sulla morte, contrastando l’ipotesi del suicidio a favore dell’omicidio involontario da parte di due giovani che stavano giocando con una rivoltella nei campi. Non stupisce che in questo scenario la presunta arma delitto sia stata battuta all’asta ad un prezzo esorbitante, oggetto di un culto arcaicamente feticistico.

La rivoletta incriminata


Davanti a tale miopia, a tali orbe polarizzazioni, cosa rimane della sua eredità artistica? Non possiamo dimenticare gadget, locandine, poster, stampe su grembiuli e shopper, tutto un repertorio di souvenir kitsch che oggigiorno fa indiscutibilmente parte del suo immaginario commerciale. Il cinema, con la sua capacità di intercettare fantasie inconsce e riprodurre schemi culturali interiorizzati, offre un’occasione di riscoperta e confronto di un’opera che sopravvive a sé stessa (oltre che all’autore) nella nostra società, rinnovandosi anche al prezzo di tradirsi. Cosa dicono del nostro modo di guardare van Gogh la moltitudine di immagini, da quelle sui social a quelle nei bookshop, che infestano la nostra immaginazione?

 



Animare van Gogh, abitare van Gogh


L’universo cinematografico ha sicuramente giocato un ruolo di primo piano nel costruire il mito di van Gogh. L’immagine artificiosa che se ne deduce “filtra” la visione che abbiamo delle sue opere, quasi il nostro sguardo non potesse più essere vergine al cospetto di esse, mescolando fatti reali a immaginari. I gossip entrano prepotentemente in campo quando la nostra mente istituisce nessi, opposizioni e tangenze davanti alla complessità di rappresentazioni apparentemente “immediate” ed “empatiche”, che sfuggono al controllo razionale.
I suoi quadri ci sembrano scenografie dove prendono vita storie, incontri, eventi drammatici e sentimentali come su un set cinematografico: il particolare stile che esalta i colori e la luce costruisce un’atmosfera magica e rarefatta. Questa esplorazione oggi non avviene più nella dimensione onirica dell’ Akira Kurosawa di Sogni (1990) – sospesa e contemplativa – ma in quella virtuale e iper-frenetica dei social. Su instagram qualsiasi paesaggio può diventare una pittura romantica che accoglie felicità e infelicità, citando involontariamente l’operato dell’artista olandese.

Una scena di Loving Vincent (2017) di Dorota Kobiela e Hugh Welkman


Loving Vincent (2017) di Dorota Kobiela e Hugh Welkman porta alle estreme conseguenze questo discorso, dove ogni singolo fotogramma è stato realizzato a mano nel suo stile espressivo e vorticoso. Grazie alla narrazione proposta, non solo possiamo “abitare” l’universo figurativo vangoghiano, ma possiamo anche esplorare il mistero della sua morte come dei veri investigatori, chiamando in causa testimoni, interrogandoli. Sherlock Holmes siamo noi, e la storia si fa intrigante. Insomma, proprio quello che ci voleva, inseguire piste immaginarie per sfuggire alla astrusa difficoltà di restare davanti ad un’opera e accogliere il vero mistero, quello della pittura.

Willem Dafoe in Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (2018) di Julian Schnabel


Ancora van Gogh!


Il film Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (2018) di Julian Schnabel gioca la carta dell’immedesimazione regista/artista. Quest’ultimo decide di dipingere personalmente le copie dei numerosi quadri mostrati nel film, con l’assistenza della pittrice francese Edith Baudrand, entrando in comunione con la poetica a partire da uno scambio che vuole farsi fusionale. Questo faccia a faccia fra due epoche e individualità ci porta nel cuore della nostra riflessione. La forza del mito non viene meno, ma l’opera nella sua esistenza materiale riprende il sopravvento. Schnabel si espone totalmente attraverso questa scelta, così come, Autoritratto come pittore (1887-1888) di van Gogh rappresentava una forma di autoaffermazione simbolica con effetti molto reali. La scena rappresentata mostra l’artista nell’atto di dipingere la propria immagine, offrendoci il suo gesto e il suo sguardo. L’identità è qualcosa di movimentato e instabile, e si declina anche attraverso la ricerca artistica, in particolare con la pratica dell’autoritratto. Rappresentarsi diventa un’occasione di scoprirsi, di verificare l’esistenza del sé in quanto altro. Van Gogh ha portato alle estreme conseguenze questa ricerca di un contatto e una connessione profonda.

Autoritratto come pittore (1887-1888) di van Gogh.

Oggi possiamo travisare il presunto messaggio dei suoi quadri, inserendo motivi e stereotipi, facilitati da un sistema culturale che ha assunto la sua figura come protagonista di un’epopea contemporanea, resuscintadolo e moltiplicandone la presenza su schermi e manifesti. Tuttavia, qualcosa di vero c’è. Il cinema, attraverso l’opera dei registi, prende in consegna il lascito dell’eredità artistica, sviluppando potenzialità latenti, anche ritornando sui soliti topoi, insistendo a parlare ancora di van Gogh. Nella ripetizione, nella ripresa del medesimo soggetto, si inserisce sempre una differenza. Oramai non c’è più bisogno di citare né Nietzsche né Deleuze e Guattari. Van Gogh, ripreso e tradotto, manipolato, deformato nell’epoca dell’infinita riproducibilità e delle postmoderne riletture e reinterpretazioni, è lui e non è lui, la sua traccia si disperde ma sopravvive, così come accadeva in vita, quando nel disperato tentativo di “afferrarsi” correva all’inseguimento del proprio vero volto, realizzando nel corso della propria carriera circa quaranta autoritratti.
Van Gogh nelle sue opere ci racconta anche e ancora di noi. Nessuna immagine è mai sufficiente quando entra in gioco lo sguardo, quando abbraccia un’identità.