Valerio Eletti, immagini in connessione: un incontro in occasione dell’uscita dell’album “Da 1 a 1”

I suoi disegni utilizzano un registro ironico e ludico, tra le carte da gioco e il rebus, la citazione artistica colta e quella illustrativa. In un singolo disegno possono convivere figure tipicamente precolombiane, geroglifici o altre scritture antiche, affiancate da personaggi fumettistici e da simboli più o meno criptici, così come una xilografia o un dipinto rinascimentale si può trovare a fianco di un’icona Pop, in una commistione tipicamente postmoderna tra cultura cosiddetta alta e bassa.

 

Valerio Eletti è stato tante cose e il suo talento è proteiforme. Abbiamo avuto il piacere di fare con lui una stimolante conversazione.

 

Laureato in fisica, giornalista professionista, docente universitario, artista, disegnatore… chi è Valerio Eletti? Come si definisce?

Ho fatto tante cose perché sono curioso, consapevole del rischio di essere superficiale. Se si naviga in superficie cercando i collegamenti, non si possono approfondire tutti i nodi: se ne approfondirà uno qua e uno là, con l’umiltà di sapere che in certe cose è meglio ascoltare altri. D’altra parte, se dopo miliardi di anni passati senza la nostra presenza, per caso ci troviamo qui, almeno diamo un’occhiata intorno, vediamo cosa c’è, non lasciamo passare questa occasione così rara e imprevedibile.

Quindi in sostanza mi definirei un curioso.

 

Cercando informazioni su di lei in internet è emerso il Festival della complessità; di che si tratta?

Alla fine degli anni ’90, lavorando sulle simulazioni per l’apprendimento (in particolare per l’e-learning) ho cominciato a occuparmi di reti neurali artificiali e così ho intercettato il mondo della complessità: sono rimasto affascinato e mi ci sono tuffato. Quello complesso è infatti un paradigma cognitivo che ci permette di vedere il mondo in un modo diverso, non deterministico e non riduzionista, con una grande attenzione alle relazioni che si vanno a instaurare tra persone, fenomeni e avvenimenti. Nel decennio successivo ho conosciuto diverse altre persone che si interessavano di sistemi complessi: medici, psicologi, economisti, manager; e in particolare Fulvio Forino, l’ex direttore sanitario del San Camillo che nel 2010 ebbe l’idea di creare una occasione di incontro e di diffusione del pensiero sistemico complesso: il Festival della complessità, appunto. Festival che ha preso le mosse da Tarquinia per espandersi poi per una dozzina di anni in una quarantina di città in tutta Italia. Così ora ci sono degli “hub”, dei centri di interesse, in varie città italiane, che si occupano di studi sulla complessità all’interno di discipline differenti. In Sicilia c’è un gruppo che si occupa di filosofia, in Veneto e in Trentino si occupano di sanità e di studi sui pazienti complessi, a Parma c’è un gruppo che si occupa di psicanalisi… insomma, è diventato complesso (reticolare, connesso, diffuso, auto-organizzato) anche il Festival.

Ricordo che “complesso” non vuol dire “complicato”; un orologio, una locomotiva, un aeroplano sono complicati, ma ogni volta che li ricostruisco nasce la stessa cosa, non emerge mai qualcosa di imprevisto; tutto quello che è vivo e sociale invece è complesso, perché è frutto di tanti elementi che si accostano l’uno all’altro: e da queste relazioni nasce qualcosa che non era prevedibile prima. Tra parentesi, mi ha colpito che Giorgio Parisi abbia preso il Nobel proprio su questi studi (anche perché abbiamo studiato Fisica alla Sapienza negli stessi anni, a cavallo tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta del Novecento: ci siamo laureati a distanza di un anno l’uno dall’altro).

 

Quanto è importante coltivare la complessità e renderla sempre manifesta?

Rispondo con una battuta non mia, ma divertente e illuminante: “Ogni problema complesso ha una soluzione semplice. Che è sbagliata”.

 

Nell’epoca dell’ultra specializzazione è possibile avere ancora una visione d’insieme che ci permetta di compire le connessioni fra vari ambiti del sapere?

C’è un retaggio di determinismo e di riduzionismo che ostacola il fluire di conoscenza da un settore all’altro. Approfondire è fondamentale, però, se il sapere rimane nella sua nicchia e non si collega con altri studi, rimane arido, toglie conoscenza invece che aggiungere.

Pensiamo all’università: non vi sembra un paradosso il fatto che si possa fare carriera solo pubblicando sulle riviste del proprio ambito specialistico? Se per esempio uno si occupa di arte e pubblica su di una rivista che si occupa di letteratura o di un’altra disciplina, non dovrebbe avere più valore? Ovvero: se la peer review (“revisione tra pari” ndr) di una rivista di un altro settore fa passare un testo considerato interessante anche trasversalmente, dovrebbe diventare un riconoscimento scientifico sia del merito che delle connessioni tra discipline.

 

Veniamo all’aspetto artistico: quando ha cominciato a disegnare? Com’è arrivato a pubblicare i suoi disegni su importanti quotidiani e periodici come “la Repubblica” e “L’Espresso”?

Fin da bambino ho sempre disegnato, mio nonno era ebanista, mia cugina mosaicista a Ravenna, disegnavano un po’ tutti in famiglia. Ma nello stesso tempo io ero incuriosito dalla tecnica e dalla scienza, per cui ho sempre fatto curiosi salti dalla scienza all’arte e viceversa.

Dopo l’infanzia e l’adolescenza, per diversi anni, i miei disegni hanno lasciato il passo alla pittura, ai quadri su tela. Di lavoro facevo il ricercatore scientifico in un centro di ricerca per l’IRI (il CSM, allora Centro Sperimentale Metallurgico), ma nel tempo libero dipingevo e facevo mostre con un discreto successo, se pensiamo che ogni volta vendevo tutto quanto esponevo. Ma erano gli anni ’70 e c’era nell’aria tanta ideologia (anche troppa), e un grande bisogno di autoanalisi. Le contestazioni ci spingevano a voler rendere più politico il lavoro artistico (e culturale in generale): il desiderio (mio e di altri giovani dell’epoca) era di togliere valore commerciale e privatistico alle nostre opere d’arte, e di indirizzarle a tutti, non solo a galleristi e collezionisti “borghesi”. Nel 1974 con alcuni amici fondammo così una rivista legata a una galleria che si chiamava “Spazioarte”, a cui collaborarono anche Calvesi e Argan. La galleria durò solo un anno, mentre la rivista visse e fu diffusa per altri tre anni, fino al 1977. In quel periodo decisi di abbandonare la pittura su tela, con il suo feticcio di oggetto da collezione, per iniziare a lavorare sulle illustrazioni: proposi quindi i miei nuovi lavori all’Espresso, a Panorama e a la Repubblica, che era appena nata e che mi fece poi pubblicare per molti anni disegni e articoli per l’inserto Weekend, dedicato ai viaggi, alle mostre, alla moda e al turismo. E così, dopo aver lasciato la ricerca scientifica, ho vissuto per un decennio facendo illustrazioni per mensili, settimanali e quotidiani, ma anche scrivendo di arte per testate come “L’arte in questione” di Radio3 Rai.  

 

Come si concilia la sua indole scientifica con quella artistica?

Il legame è sempre la curiosità: cercare di far emergere cose nuove da cose note.

 

Come nasce questo suo album di disegni che raccoglie 55 tavole disegnate a china tra il 1979 e il 1981?

Alla fine degli anni Settanta venni in contatto con l’editore Mazzotta di Milano, che si era innamorato del mio modo di rivisitare la grafica, la storia dell’arte e dell’immagine, e mi propose di fare un libro. Lo avrebbe dovuto presentare Gillo Dorfles. Ma non ho mai finito tutte le tavole previste. Il titolo del lavoro era “Da 1 a 1 - passando per l’infinito, Hollywood e le maschere”; l’idea era quella di costruire delle pagine in cui tutte le immagini (al 99%) fossero prese dalla storia del disegno, e di far dialogare ogni doppia pagina con quella precedente e con quella successiva, con analogie, associazioni di idee, giochi di chiari e di scuri, richiami di personaggi simbolo…

Il libro presenta nella prima tavola il concetto di 1, nella seconda quello di 2, e poi avanti così con il 3, e poi il 10, e il 100, e 1000, 1001 (e qui ci sono per esempio le Mille e una notte e i Mille di Garibaldi), fino a milioni di milioni, all’infinito, l’universo, le stelle, le star del cinema, poi il teatro, la danza e così via.

 

Come vanno guardate queste immagini? Chi guarda è libero di compiere la propria lettura e le proprie associazioni o esiste una lettura “giusta”?

Sì, esiste una chiave di lettura che avevo studiato nei minimi dettagli. Per esempio avevo strutturato la simmetria che doveva caratterizzare ciascuna pagina, avevo pianificato l’andamento della prevalenza del bianco o del nero da una all’altra pagina, il ritorno ricorrente di figure protagoniste e via dicendo. Ho fatto centinaia di disegni preparatori, mettendo in relazione le varie doppie pagine, che costituivano un loro mondo in risonanza tra le immagini ma anche in risonanza con le altre pagine.

Ritmi interni del volume “Da 1 a 1”.

 

Che consiglio dà a chi prende in mano per la prima volta questo libro? Come ci si deve approcciare?

È un gioco, assolutamente: sono suggestioni. Va sfogliato per vedere se ci si entra in sintonia. Ecco, magari consiglio di leggere quelle due paginette iniziali che spiegano cos’è il libro. Ogni pagina è autonoma: ci sono dei nessi, certo, ma ogni pagina è auto-conclusiva e quindi il libro può anche essere sfogliato casualmente.

Il buio oltre la pillola. 1980

 

Una delle cose più interessanti dei suoi lavori mi sembra questa operazione di pescaggio dalla memoria collettiva, l’utilizzo di immagini iconiche, celebri e talvolta archetipiche, che hanno la forza di far scaturire connessioni e associazioni. Come avveniva questa operazione?

Premessa: dato che in quegli anni io segnalavo le mostre sull’inserto Weekend di Repubblica, mi arrivavano decine di cataloghi ogni settimana, per cui avevo continuamente sotto gli occhi moltissimi volumi (che poi ho in parte donato a varie biblioteche). Inoltre viaggiavo molto per lavoro, e andavo spesso a New York, dove trovavo dei bellissimi e ricchi libri di sole immagini: sulla storia del manifesto e della grafica, ad esempio. Libri che in Italia all’epoca non esistevano. Ne compravo centinaia ogni volta che andavo negli Usa o in Gran Bretagna. Bene, da questi volumi attingevo moltissime immagini che poi ricopiavo e assemblavo per realizzare le mie illustrazioni per i quotidiani e i settimanali, o le mie opere per il libro di Mazzotta.

Illustrazione per “Week end”. Viaggio nell'Italia magica - Il Nord. 1979

 

 

Il suo “Da 1 a 1. Un viaggio tra immagini e associazioni di idee” è un libro fatto solo di immagini, immagini parlanti da decifrare. Possiamo definirlo un libro surrealista?

Forse più dadaista che surrealista. Sicuramente però legato al mondo delle avanguardie storiche. Pensiamo al cadavere squisito o ai fotomontaggi: alla base c’è proprio la tecnica di mettere a contatto, a confronto, in connessione e in contrasto elementi presi da situazioni diverse. Per cui sicuramente la radice del mio atteggiamento è lì. Con una nota “operativa”: se dal fotomontaggio o dal dadaismo ho preso il “progetto tecnico”, dal surrealismo ho cercato di prendere la parte più ironica, ammiccante, dissacrante.  

 

“Là dove Alessandro scagliò la sua lancia ora c’è soltanto un cavallo da luna-park”. In questo suo disegno c’è un omaggio a Savinio e alla classicità, è così?

Si è così. Quel disegno è preso da una serie di tavole che feci per illustrare i reportage di Stefano Malatesta, impegnato in un viaggio sulle tracce di Alessandro Magno, come i viaggi fatti in seguito da Paolo Rumiz. C’è quindi Savinio ma c’è anche Cambellotti e il suo mare, le sue illustrazioni per l’Odissea, che mi hanno sempre affascinato. L’idea era quella di illustrare mettendomi in un atteggiamento “da lettore”, per far emergere delle visioni scaturite dalle parole scritte e quindi per creare risonanze e connessioni.

 

Quanto è importante la dimensione ludica, del gioco, nel suo lavoro, e più in generale quanto pensa sia importante nella vita?

Tantissimo, è fondamentale, penso che non se ne possa fare a meno. Chi si prende troppo sul serio può fare dei grandi errori e può cadere nell’auto-incensamento. Il gioco per me è necessario, è centrale per il mio modo di esistere. Io mi sono sempre divertito nel fare il mio lavoro. Capitava che passassi le nottate a disegnare e neanche me ne accorgessi.

Mille, mille, e milleuno