Tre classici dell'erotismo superbi

Fra teatro, romanzo breve e narrazione epistolare, tre pietre miliari dell’eros e della perversione intellettuale, ad opera tre autori straordinari.

 

Madame de Sade, di Yukio Mishima.

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Una pièce teatrale (oggi disponibile della stilosa ed esplicitamente allusiva edizione Guanda) che narra la celebre storia della fedelissima sposa del Divin Marchese, che dopo anni di sabotaggi allo scopo di liberarlo alla prigionia del carcere prima, della Bastiglia poi, decide non rivederlo non appena riesce nel suo intento.

Mishima, genio giapponese grande conoscitore della cultura europea, francese in particolar modo, realizza un dramma in costume che rimanda ai classici di repertorio della scrittura del desiderio come Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. Meno prolisso dei lavori sadiani, a cui inevitabilmente si ispira, grazie anche alla possibilità offerte dalla forma teatrale di ridurre al minimo l’elemento descrittivo, l’opera si legge velocemente in poche ore. Viene facile venire catturati dal ritmo serrato degli scambi di battute, dalla sagacia e dall’intelligenza dell’eloquio, erudito e fortemente metaforico.

La principessa di Cléves, trasposizione del 1961 di Jean Delannoy con sceneggiatura e dialoghi di Jean Cocteu

La principessa di Cléves, trasposizione del 1961 di Jean Delannoy con sceneggiatura e dialoghi di Jean Cocteu

Madame de Sade, figura quasi a pendant della principessa di Cléves dell’omonimo romanzo di Madame de La Fayette, riesce a fare dell’ascetismo una forma più alta e raffinata di eros. Entrambe le donne, infatti, davanti la possibilità di coronare il proprio amore con l’uomo (apparentemente) capace di generarlo, si rifugiano - con un escamotage romanzesco - in un convento, dove terminare i loro giorni. In questa estetica della privazione si annida un enigma che il lettore dovrà scoprire al costo di venire sedotto da poetiche riflessioni, torbide come il satanismo delle messe nere di Baudelaire, Lautréamont, Bataille e rigorose come un pamphlet filosofico. Da divorare con ardore.

Una trasposizione teatrale di Madame de Sade

Una trasposizione teatrale di Madame de Sade

 

 

Le undicimila verghe, di Guillaume Apollinaire

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Un romanzo che è un classico, ma per stomaci forti. La storia di un principe rumeno, Mony Vibescu, che nella Parigi della Belle époque vive un’avventura rocambolesca quasi à la James Bond, fra intrighi internazionali al limite dell’assurdo e incontri sessuali al limite della decenza. Quasi didascalico nella sua continua rassegna di perversioni (dalla pedofilia al feticismo verso cose meno “classiche” che non ci sentiamo di anticipare) e di personaggi di volta in volta più eccentrici (a dir poco) e iconici, tanto che sembrano usciti dalle più deliranti opere del cinema contemporaneo, da Sorrentino a Guadagnino, da Greenaway a Carax.  Così conosciamo una donna chiamata “Cuculina”, in un mènage che si allarga fino a includere un numero spropositato di persone, dai domestici a dei ladri arrivati per saccheggiare il suo appartamento, a personaggi come un’infermiera sadica che gode davanti alla sofferenza dei propri pazienti, fino a uomini professionisti di perversioni immischiati nella guerra russo-nipponica per il dominio della Kamchatka.

Un lavoro parossistico che rimanda un altro racconto dell’autore, Le prodezze di un giovane don Giovanni (romanzo attualmente introvabile, edito in una bellissima versione ES nel lontano 1998), che riprende il motivo dell’educazione sentimentale dalla figura mozartiana del mondano e frivolo seduttore per realizzare un’opera… altrettanto mondana e frivola.

La celebre opera, realizzata e performata nel 1919

La celebre opera, realizzata e performata nel 1919

Apollinaire, il poeta stellato (Marcel Duchamp lo omaggia con “tonsure”, celebre opera in cui si fa immortalare con una chierica a forma di stella, a testimonianza delle pallottole che il poeta si è visto sparare in testa durante il primo conflitto mondiale, ma anche a simboleggiare l’elevazione astrale del suo genio) compone al ritmo del suo liuto orfico una costellazione di situazioni e storie che sembrano orbitare attorno a una stella nera, raggiante di torbidi fuochi e incendiarie fantasie che non possono lasciare indifferente il lettore. Un’ironia balorda e dissacrante accompagna questo viaggio agli inferi che è una gita in un luna park granguignolesco.

 

 

 

La chiave, di Jun'ichirō Tanizaki

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Un uomo anziano, geloso della giovane e seducente moglie, decide di “giocare” combinando elementi prelavati dalla fantasia e dalla realtà allo scopo di manipolare la donna, combinando per lei una relazione clandestina con un uomo decisamente bello e prestante. Un simile “gioco pericoloso”, tuttavia, presto gli sfuggirà di mano, causando interessanti colpi di scena. Autore noto per i suoi personaggi femminili, monumentali femme fatale oppure donne emancipate che semplicemente sfruttano la propria indipendenza a danno di ingenui pretendenti, mette insieme una fitta trama epistolare (che vede alternarsi le lettere di lui con quelle di lei) al fine di produrre un’atmosfera intima e provocante, che ci fa entrare nel vivo di un gioco di coppia a sua volta squallido e intrigante, “elevato” e “basso”. Un’opera che fa da eco ad un altro suo testo, Morbose fantasie, racconto lungo che riserva anch’esso un finale a sorpresa e una figura femminile sfuggente e carismatica.

Un poster del film veramente molto datato

Un poster del film veramente molto datato

La chiave è un romanzo reso celebre in italiana dalla trasposizione cinematografica maccheronica e colorita di Tinto Brass, che vede protagonista una giovane Stefania Sandrelli che, se non ha niente della sua controparte nipponica, rivela parimenti un medesimo pathos che esprime bene il senso profondo di tale narrazione, come un serpeggiante fiume sotterraneo che esplode improvvisamente rivelando la propria natura profondamente torbida e sulfurea.