Tarjei Vesaas, “Gli uccelli”

 Per quanto un libro possa essere incredibilmente commovente, i filtri e le contingenze dell’atto pratico di leggere raramente mi portano a versare autentiche lacrime. Ovviamente, quando questo accade, il libro in questione entra di diritto nel mio personale empireo - per accedervi le lacrime non sono necessarie, molti libri “bellissimi” vi dimorano pacificamente senza aver causato il pianto. È successo raramente, ma è successo, che leggendo io abbia dovuto interrompere la lettura perché la vista si era appannata; ancor più raramente, forse una sola volta, è accaduto che io singhiozzassi copiosamente: quel libro ha un posto prediletto nel mio cuore. Quel che è successo con “Gli uccelli” di Tarjei Vesaas, però, non mi era ancora mai accaduto: ho completato la lettura senza versare nemmeno una lacrima, poi, qualche giorno dopo, mentre ero in scooter zigzagando attraverso il traffico romano, chissà forse complice della catarsi, ho ripensato a Mattis, il protagonista del romanzo, e sono scoppiato improvvisamente in lacrime. Durante la lettura e in quei giorni cuscinetto prima del pianto - giorni di uno strano maggio in cui quasi quotidianamente il sole mattutino si è trasformato in improvvisi, apocalittici temporali di metà pomeriggio, avvicinandomi quindi ogni giorno il ricordo del terrore di Mattis - già consideravo “Gli uccelli” un capolavoro ma ora - ma ora - io ne sono innamorato! Amare significa spesso perdere lucidità, ed io mi ritrovo sopraffatto e con la difficoltà di trovare le parole adatte a spiegare perché mi sia tanto commosso e innamorato. Tenterò.

Vorrei dire, prima di tutto, che il tocco di questo libro è delicatissimo. La storia di Mattis e di sua sorella Hege è una storia da nulla, che non suona gli squilli dorati della gloria. Mattis è un «idiota» - quanto mi costa usare questa parola - incapace di pensare in modo lineare; i pensieri gli si ingarbugliano e le frasi che dice seguono il filo di una disordinata matassa ed affiorano, quasi decontestualizzate, di tanto in tanto, alle sue labbra. Nessuno lo capisce davvero, solo noi lettori abbiamo seguito i pensieri e sappiamo esattamente cosa Mattis abbia voluto dire: a noi che sappiamo egli parla con la chiarezza di un profeta.

Non c’è violenza, però, nemmeno in chi dice «idiota»: “Gli uccelli” è un libro privo della volontà di fare del male. Bene inteso, c’è sofferenza, ma non c’è malvagità, gli sguardi degli altri sono pieni di pietosa indulgenza. Vi si trova, però, un grande senso di dignità. Mattis sa come appare agli occhi degli altri e non vuole essere visto. Non vuole essere riconosciuto nel suo ruolo di tonto del villaggio dagli sconosciuti, per lui è una questione importante, e si sforza e vuole con tutto se stesso essere trattato da pari. Ecco, questo senso di estraneità agli altri è proprio quello che, a mio avviso, lega a doppio filo Mattis ad ogni possibile lettore. La straordinaria gentilezza di Vesaas è quella di farci identificare con l’«idiota».

Benché il mio pregiudizio - che però sospetto sia stato ben voluto dall’autore - mi abbia portato a leggere il libro con la tensione dell’attesa del momento folle di Mattis, benché più di una volta mi sia aspettato il gesto violento da «idiota» guardando ciecamente a Mattis come alla bestia imprevedibile, egli è in realtà una creatura pura, non è in grado di ferire, ed io mi sono ritrovato a vergognarmi dei miei pensieri e ad augurargli, col più ardente desiderio, che non gli succedesse niente di male, anzi di più, che potesse capitargli del bene.
Il mondo di questo libro è il nostro mondo, ma vedendolo attraverso gli occhi del protagonista si rivela nella sua misteriosa magia.

Fra i topoi meno interessanti della letteratura io annovero i misteri. Mi risultano, perlopiù, una trovata retorica semplicistica: dietro al buon nome di mistero talvolta non si cela assolutamente niente degno di nota; molti autori chiamano mistero ciò che semplicemente non riescono a spiegare, o utilizzano questo specchietto per le allodole per attrarre pigri lettori che preferiscono il facile luccichio del mistero alla fatica della sua spiegazione. Se esiste un mistero degno di essere enunciato, però, è proprio quello del mondo di Mattis. Nel corso della lettura pare di trovarsi in un mondo fiabesco; ogni tanto, qualche sporadica comparsa automobilistica ci ricorda che ci troviamo in un vero paese, abitato da vere persone, collocato nel Tempo - quello in cui esistono già le macchine. Probabilmente, il fatto che Mattis viva nella disillusa epoca contemporanea rende ancora più dolce, per contrasto, il suo sguardo puro sul mondo. In virtù della grazia della sua anima, Mattis può parlare il linguaggio della natura. Perciò, quando incontra una beccaccia si apre la parte più poetica di tutto il libro. Mattis e la beccaccia iniziano un dialogo fatto di buchini nel fango ed impronte di zampette, il cui solo pensiero mi fa danzare la mente: «buchino, buchino, buchino. Amicizia eterna, diceva», ecco la tenerezza indicibile della reiterazione del diminutivo. La danzante lingua degli uccelli può essere parlata solo dagli innocenti - ho rivisto in lui Joseph Beuys che comunica con la sua lepre; “Gli uccelli” è stato scritto prima, chissà che questa non sia una risonanza.

Anche un altro capitolo mi ha preso per mano e mi ha condotto verso una struggente dolcezza, quello della passeggiata di Mattis con la sorella: Hege non è una nemica, è profondamente buona ma profondamente normale, non è in grado di vedere la magia del mondo, non si accorge del privilegio della beccaccia. La sua vita squallida di zitella si è abbrutita a causa delle necessità materiali alle quali lei sola può provvedere: la condizione del fratello non gli permette di lavorare. Hege risponde a Mattis dal limite della pazienza che, senza biasimo, vediamo finire, eppure dorme tranquilla quando lui è al suo fianco, e lo chiama, lo difende, lo rincuora dal profondo di un amore incondizionato di sorella.

Temo di aver fallito il proposito di rendere la leggiadria di questo libro, che parla con una sconvolgente semplicità. Gesti o sguardi che per molti di noi sarebbero inezie diventano per Mattis un «pulviscolo d’oro» nella memoria; non il tocco ma lo sfiorare basta a Mattis e diventa per lui importante, e per noi, che impariamo da lui un nuovo sguardo e la bella lingua degli uccelli.