Piero Marras, leggenda del cantautorato sardo: “Fiuto le radici della tradizione”

Illustrazione di Chiara Muscas

Non gli dite che da molti sardi è considerato patrimonio dell’umanità, perché si emoziona. Classe 1949, Pietro Salis, in arte Piero Marras, ha segnato la storia del cantautorato italiano scegliendo di cantare in lingua sarda. Con 16 album pubblicati, l’artista nato a Nuoro ha raccontato in rima la Sardegna da tutti i punti di vista. La sua è una storia di scelte, di rinunce e di segreti mai svelati.

Come hai scelto lo pseudonimo “Piero Marras”?

Non volevo rinunciare a un cognome che richiamasse la sardità. L’appartenenza, la provenienza. Al tempo andavano di moda i cognomi aristocratici, ad esempio con il “De”: come De André. Una tendenza tutta italiana da cui volevo distinguermi. La storia di come ho scelto lo pseudonimo non l’ho mai raccontata. Apparteneva al mio privato. Ora te la spiego. Dovevo andare a fare il contratto con la EMI, avevo 26 anni, era il 1967. Dico alla casa di produzione che voglio suonare con uno pseudonimo e loro mi rispondono: “Va bene, ci faccia sapere”. Mentre penso al nome mi accade una disgrazia. Calcoli renali. Mi ricoverano in ospedale. E lì mi assiste il compagno di stanza. Diventiamo molto amici (lui stava anche peggio di me). Quando è il momento dei saluti, gli dico: “Da domani ho deciso di chiamarmi come te”. Salvatore Marras. Ho tenuto il mio nome e ho aggiunto il cognome. 

Lui lo sa?

Sì, ora non c’è più. Però mi ha seguito molto. Lui e la famiglia venivano sempre a sentirmi ai concerti. Eravamo fratelli di sangue.

Tu ne hai di fratelli?

Noi eravamo in 4. Io sono il più piccolo.

Come hai iniziato a suonare?

La musica a casa c’è sempre stata. Mia madre aveva la “fissa” del pianoforte. Aveva acquistato a rate un vecchio pianoforte FIP (fabbrica italiana pianoforti). Un verticale, uno di quelli un po’ museali. Mia sorella prendeva lezioni e così toccava anche a me. 

Tua madre suonava?

No, per mia madre la musica era importante e doveva far parte della nostra cultura. Ma non era facile, perché a Nuoro non c’era niente. Nessun conservatorio. Così veniva a casa il professor Madrigali. 

È con lui che ti sei appassionato?

Il professore iniziava con il solfeggio. Ma io avevo 7 anni, preferivo giocare. Interruppi dopo neanche un anno. Ma, dal momento in cui ho smesso, mi sono attaccato al pianoforte.

Cioè?

Quando c’è la libertà e la musica diventa curiosità, i tasti neri e bianchi inizi a frequentarli perché sei libero di farlo. E non assomiglia più a una scuola, a una materia. Così ho cominciato. Sono completamente autodidatta.

E poi hai iniziato a fondare i primi gruppi.

Jollymen, I Granchi. Chiamare “granchi” un gruppo che sta a Nuoro, in montagna, è stato anche sperimentale, una mia provocazione. Suonavamo ai matrimoni, alle feste di piazza. E il batterista aveva una bancarella di noccioline americane. Le riunioni le facevamo tutte lì, poi “svaligiavamo” la bancarella. 

Nel 1967 tuo padre viene trasferito da Nuoro a Cagliari per lavoro. A 18 anni ti ritrovi in una grande città. Com’è stato questo cambiamento?

Traumatico. Perché a Nuoro avevo dei punti di riferimento precisi, che erano anche una certezza. Quando sono passato in una città dove non conoscevo nessuno ho dovuto ricominciare da capo. Da parte mia, la disponibilità all’incontro c’era. Ma non ho mai avuto un carattere aperto, ero abbastanza scontroso. La musica mi ha salvato. Ti racconto un episodio. Ero in piazza Repubblica. Vedevo le macchine, il traffico. A un certo punto, da lontano, sento un ragazzo che accorda una chitarra elettrica. Da segugio del suono mi avvicino al garage. Stavano suonando Ruby Tuesday dei Rolling Stones. Così mi sono messo sull’uscio ad ascoltare. Mi chiedono: “Cosa te ne pare?”. Io quel brano lo conoscevo bene. Così gli dico che manca qualcosa e gli do qualche dritta. Dopo tre giorni facevo parte di quel gruppo. I Nobili. Avevamo una bella divisa e anche un manager. Volevamo essere un po’ aristocratici. 

Guadagnavi con la musica?

Sì, qualcosina. Ed essendo uno studente tutto quello che arrivava era oro colato. Ma non era quello lo stimolo. Bensì suonare, tornare a casa alle 7 dal mattino. Insomma: la vita da musicista. Mi ricordo una volta mio padre che usciva di casa per andare in ufficio e io che rientravo. “Che ci fai tu?”, mi chiese. E io: “Sono uscito un po’, non riuscivo a dormire”. In realtà stavo rientrando.

Nel 1971 sei con il Gruppo 2001.

Il 2001 ci sembrava il futuro: lontanissimo. Suonavamo cover, ma ero stanco di fare sempre le stesse canzoni. Così a un certo punto provo a dire ai miei compagni: “Facciamo dei brani nostri”. Ho dovuto insistere molto. E alla fine riusciamo a comporne uno. È una salvezza. Perché quando una casa discografica napoletana, la King, ci contatta, noi avevamo già un brano nostro. E quindi possiamo sfruttare quella possibilità. 

Avevo in mente Elisa.

Andò benissimo. Gianni Boncompagni e Renzo Arbore lo mandavano continuamente su Alto gradimento

Iniziate a girare l’Italia. Qual è il tuo rapporto con il “Continente”?

Non lo vedo come continuità, perché non puoi prendere la macchina e decidere di andare dove vuoi come invece fai tu. Bisogna prenotare un aereo oppure prendere una nave. È un impegno. Già il fatto di non essere padrone degli orari, ma di subire gli orari altrui incide. E poi un tempo non c’erano tutti i collegamenti di adesso. Nell’album Fuori Campo ho scritto un brano, Caro Caronte, che era una sorta di invettiva contro i trasporti. Avere il mare davanti significa doverlo scavalcare.

Gran parte della tua carriera l’hai passata da solista.

Il Gruppo 2001 aveva iniziato a starmi stretto. Ero abbastanza intimista. Così gli ho detto: “Continuo da solo”. E la casa napoletana fondata da Don Aurelio Fierro, la King, mi fa incidere il mio primo album da solista. Plancton. Che però non è mai uscito, perché la casa fallì poco dopo. Ma io nel frattempo scoprii Napoli. E la sua filosofia che cozzava con quella rigida e preoccupata del sardo. Loro affrontano la vita con leggerezza, lasciando che il giorno vada avanti. E se qualcosa non funziona non è la fine del mondo. Per i napoletani, tutti i casini si risolvono con una tazza di caffè. 

Sei ancora legato a Napoli?

Sì, da poco sono tornato in contatto con la moglie di Aurelio Fierro. Loro avevano creduto molto in me. Impazzivano per la canzone Il nonno, che racconta di un anziano che viene mandato via di casa dalla figlia e dal genero. “I vecchi se ne vanno senza rumore”. Era un tema non semplice. Ma i Fierro vollero presentarmi a Sanremo. Sapevo che non poteva funzionare e infatti il commento dalla commissione fu: “Ottimo brano, ma non possiamo trattare questi temi”. La televisione allora era nelle mani della Dc. 

Hai inseguito Sanremo?

A me non è mai fregato nulla di Sanremo. Non credo nella musica come gara. Le soffro molto queste cose: la trasmissione, la diretta. Una carneficina totale, la mia è musica interiore. Non sono mai stato adatto a Sanremo. 

Nel 1978 esci con l’album Fuori Campo. Tra le canzoni c’è Il Figlio del Re, storia di schiavitù e di vita. Come nasce?

Volevo scrivere una favola senza tempo, che avesse una doppia chiave di lettura: sia per i bambini che per gli adulti. Nella canzone c’è il tema della famiglia, del figlio che non appartiene più a quel mondo. C’è un’idea politica. E poi c’è il trucco della televisione per sviare, l’oppio del popolo. Un po’ alla Branduardi. Mi piaceva infine che si chiudesse il cerchio: infatti riprendo la prima strofa nella conclusione. 

Come ti ispiravi?

Venivo dalle letture di Pasolini. Mi piacevano quelli che mi facevano pensare, riflettere. Il mio mondo era quella “sinistra” che oggi non c’è più. 

Come lavori sul testo?

Molto, anche in maniera maniacale. Perché, secondo me, più ci metto questa attenzione e più dura: finisce di essere contingente e diventa universale. Non volevo brani criptici come l’ermetismo di De Gregori. Volevo essere chiaro, ma con una valenza alta. Popolare, ma con temi non semplici. Anche perché all’inizio il mio pubblico non era quello dei concerti, ma della piazza. Non veniva per me, ma per sentire le canzoni. Per questo mi è sempre interessato arrivare a tutti. 

Nella canzone Fuori Campo scrivi “qui la vita non si sente, non ritornerò mai più”. Ti riferivi alla Sardegna?

È una canzone scritta da fuori. Scritta un po’ in aereo. Il fuori può essere anche non fisico. Di uno che stava ai margini. Perché a quel tempo c’era la scuola napoletana, romana, e io non appartenevo a nessuna di queste: venivo da oltre il mare. “Qui la vita non si sente” può essere ambivalente: o io sto fuori e non sento la vita che mi piace, che è quella dell’isola, o io sono l’isola e non sento il pullulare della vita, che è quella che si vive artisticamente nei centri che contano (Milano, Roma). Sono strofe che raccontano di me.

Anche quando dico “saper fare, stando in piedi, la pipì sul muro” intendevo che essere maschio, e quindi non piegarmi, non mi è servito a nulla per la carriera. Noi abbiamo imparato tutto attraverso la strada. Il sesso e l’amore l’abbiamo imparato sulla strada, attraverso le battute e gli sfottò.

E poi quando scrivo “vecchio di un mandriano, ti sei messo a far l'indiano” mi riferisco al 68’, a quelle proteste che avevano l’aria di esser vere ma poi c’era molto maniera, molta imitazione: un ruolo che dovevi avere. Era un periodo indefinito, dove si cresceva, dove c’era la forza delle idee. Ma tu assistevi a questo cambiamento. Fuori campo, appunto.

Con Stazzi Uniti, album del 1980, vuoi dire che la Sardegna è meglio degli Stati Uniti?

Lì capovolgo l’aneddotica secondo cui il sardo era visto molto serio, incapace di ironizzare e di usare il sarcasmo. Così creo il neologismo “stazzi uniti”, giocando sulla presenza americana in Sardegna molto marcata (basi militari) e gli stazzi della Gallura. Raccontavo la mia vita d’artista, fatta di Feste dell’Unita e di piazza. Ma c’è una contraddizione in termini. Perché nei testi sono in contrasto con la presenza americana: “Americano, americano, Fammi giocare un po’ con te / Tu farai Custer io l’indiano / Che poi la fine sai qual è”. Io sono dalla parte degli Indiani, che poi saremmo noi sardi. Un concetto che aveva espresso anche De André nello stesso periodo. La contraddizione qual è? Che tutto l’album è giocato sul country, genere tipico americano. 

E così anche con Sparagli Joe, dove racconto la storia di un reduce dalla guerra che per uscire dalla pazzia deve farsi fuori lui. 

Rispetto a Fuori Campo, che era un album intimista, esco fuori. Marco il territorio come gli animali: “Vengo da qui”. E lo faccio in maniera ironica.

L’hai concepito come concept album?

Secondo me il concept album deve venire fuori dopo. Se parti con una razionalità di questo tipo, diventa già costruito. Sono le canzoni che costruiscono il resto. 

Nel 1983 scrivi Quando Gigi Riva tornerà. Un successo. Però te lo vogliono far suonare nelle discoteche. Cosa succede?

La mia grande tristezza è stata l’incontro con i promoter delle case discografiche. Bravi ragazzi, ma culturalmente lasciavano desiderare. Io odiavo la promozione, anche se sapevo di doverla fare. L’ultima idea che avevano avuto era di far suonare me e Scialpi nelle discoteche. Me ne andai. E lasciai una lettera al direttore. 

Tifi Cagliari?

Sì, sempre stato rossoblu. 

Nelle tue canzoni sono frequenti i richiami allo sport.

Mi sono accorto che molti termini che ho usato allora oggi sono attuali. Fuori campo, ad esempio, lo usi quando hai problemi di ricezione con il telefonino. 

Dopo la lettera, torni in Sardegna.

Gli anni Ottanta musicalmente erano terribili. La discoteca imperava. Bisognava fermarsi. Così mi è venuta l’idea di affrontare il suono in maniera più diretta. Avevo l’esigenza di cantare in sardo e, nello stesso periodo, De André in ligure con Creuza de Mar.

C’è una canzone a cui sei più legato?

Rime Ladre, in Fuori Campo. È molto cinica, l’ho scritta per mio padre, distruggendo quel suo mondo che era nero, pseudofascista. Quando poi ho scritto di nuovo per mio padre, in sardo, allora ho potuto parlare dei silenzi perché è una lingua dove c’è meno retorica. Ho parlato di quando il tempo non c’è più, di quando i ruoli si capovolgono e tu diventi il padre e lui il figlio. Molti mi chiedono questo brano come rito, per ricordare gli affetti. 

Nel 2000 hai partecipato al Concerto di Natale in Vaticano.

Noi artisti avevamo a disposizione la macchina, gli autisti, gli alberghi migliori. Un altro mondo. Poi avere a che fare con Dionne Warwick è stato davvero un bello. Una grande artista, di una disponibilità incredibile. E poi la possibilità di cantare per la prima volta una lingua minoritaria insieme alla lingua del mondo (che è l’inglese) e farlo in mondovisione, con 8mila persone davanti, è stata un’emozione unica.

Che rapporto hai con la religione?

Non sono praticante. Ma credo molto nel dialogo con un altro da me.

Con Basta chiudere gli occhi nel 2004 racconti della guerra.

Basta chiudere gli occhi è la storia di due ragazzini che vivono una realtà che non è quella dei nostri figli o quella che abbiamo avuto la fortuna di vivere noi. È il racconto di due fratelli che vivono in mezzo alla guerra. Uno che vede la realtà com’è e l’altro che gli racconta che non è quella che vede, ma che esiste un altro mondo: basta chiudere gli occhi. È il potere del sogno, dell’immaginazione. Chi ha la fortuna di scrivere, di dipingere, ha la possibilità di trasferirsi in un altro mondo. Soprattuto nel periodo che stiamo vivendo, molto pesante. Allora basta chiudere gli occhi per vedere un altro mondo. 

Per la capacità di fiutare le radici della tradizione, ti sei definito un cinghiale.

È nato tutto a un concerto. Alla fine ho salutato così: “Quando tornerete a casa faticherete a dormire. Perché vedrete un cinghiale con gli occhiali che sta cantando. Non sparategli, sono sempre io che canto per voi”. Quest’immagine scontrosa del cinghiale un po’ coincide con me. L’ungulato mi piace. La copertina del primo album in sardo, Abbardente, raffigura un cinghiale che corre. È un animale che ha il senso del selvaggio, ti ricorda la resistenza, la ribellione, ma è anche di una tenerezza incredibile e ha il senso della famiglia. 

Quest’anno hai dato vita la progetto C.E.C., acronimo di Campus di Energia Creativa.

È un’idea che mi è venuta dopo il Covid. Quando ero giovane non ho avuto l’opportunità di avere interlocutori con cui confrontarmi, delle sinergie. E invece fuori succedeva. Un mondo che traeva linfa e si rinnovava. Allora ho cercato di riunire tutte quelle persone a cui piace la musica d’autore e fare un campus a Villa Piercy. È venuto Mogol, Niffoi. È stata una bella esperienza.