Nel 1939 con Antonio Carini

Mio nonno ha 95 anni. È nato nel 1921 a Palermo.
Quando lo vado a trovare mi porta spesso a un bar nel centro di Palermo che esiste dal 1923. A me piace perché è un bar in stile "speakeasy", mentre per mio nonno è un bar contemporaneo, dove ci sono persone perbene e, a suo parere, i cocktail come dovrebbe essere fatti. 


Nella luce soffusa ci sediamo in un divano Chesterfield di pelle; mi sembra di sprofondare, e vedo mio nonno – magrissimo, se lo guardi con attenzione vedi la forma delle sue ossa – che si appoggia con grande disagio. Ma nonostante i suoi 95 anni lui rimane lucido e attivo e ha ancora storie dettagliate e animate da raccontare. È sempre stato una persona spiritosa e ironica. Anche nei momenti più oscuri della sua vita è sempre riuscito a trovare il ridicolo e l'assurdo nelle cose, una qualità che io ho cercato e cerco di imitare. 


Lui prende sempre il cocktail l'Americano, preparato con bitter Campari, Vermouth rosso e seltz. Sono le undici di mattina. Io ordino un’acqua frizzante. Gli racconto di una nuova conoscenza che ho fatto da poco durante un bel viaggio in Nord d’Italia, a Ventimiglia.

Sorseggiando l'Americano, comincia a raccontarmi che anche lui è stato a Ventimiglia, nel 1939 di preciso, quando aveva 18 anni, all’inizio della seconda guerra mondiale.

Nonno:

L’Ufficiale a Palermo doveva stabilire dove mandarci. Se avevamo la licenza liceale scientifica ci mandava in artiglieria, se avevamo la licenza liceale classica ci mandava in fanteria o in carristi. Con la licenza liceale classica io andai con i carristi.
Gli ufficiali si erano messi in testa che ci dovevano mandare tutti a Ventimiglia, chissà perché...
Eravamo una decina di picciotti.
In tre affittammo una casa a Ventimiglia. Eravamo io, uno che si chiamava Nasca e un altro ragazzo – che purtroppo morì, poverino.
La casa era piccola, aveva giusto due stanze, ma a noi serviva solo per stare un poco in libertà.
La caserma era in alto, perciò dovevamo fare un'acchianata per arrivarci.
Un giorno, dopo aver attraversato il ponte sul fiume Roia, incrociamo un soldatu. Dopo un saluto formale, ci guarda male e dice al mio amico: ‘Di dove sei tu?’
Allora iddo (lui) disse ‘Di Saracusa’.
Io mi misi a ridere! "Saracusa"! Ahaha!

Io: 

E poi, nonno, cosa gli hai detto? Io sono di Paleimu?!

Nonno: 

No, non ci dissi niente, non gli davo importanza.

Io: 

C'erano tanti siciliani a Ventimiglia?

Nonno: 

Gli studenti erano tutti siciliani, perché quel cornuto di Mussolini – non so perché – ci facevano antipatia i siciliani. Gli pareva che i siciliani erano contrari alla guerra.
Non era vero.
Per cui dalla Sicilia partimmo tutti. I più vicini andarono a Milano o altri posti. I più lontani andarono a Ventimiglia.

Io: 

Al confine con la Francia...

Nonno: 

Noi infatti entrammo in Francia, a Menton, quando ci fu la seconda battaglia.

Io: 

Tu hai partecipato?

Nonno: 

Sì, sparavamo. Bum! Bum! Bum! Da lontano.

Io: 

Hai colpito qualcuno?

Nonno: 

E che ne so!

Io: 

Ma era pericoloso?

A questo punto, mio nonno si ferma un attimo per tossire; per poi subito dopo bere un altro po’ del suo Americano. Sembra non voler rispondere a questa domanda. 
Non lo turbava in verità trovarsi in pericolo, ciò che più gli mancava era di poter vivere come piaceva a lui.

Nonno: 

Beh, la cosa brutta è che a Ventimiglia erano proprio strunzi strunzi strunzi.
La maggior parte dei soldati che stavano a Ventimiglia venivano da Genova. Per loro era facile tornare a casa. Andare da Genova a Ventimiglia è come andare da Palermo a Trapani: insomma, non è troppo lontano.

I soldati Genovesi la sera s'innivano a casa, si nusciavano, si vestivano puliti, andavano a ballare e noialtri, come tanti cornuti, rimanevamo in caserma a Ventimiglia. In caserma abbiamo trovato addirittura soldati di Ventimiglia che s'inniavano a casa a dormure regolarmente. Non ci stava mai nessuno in caserma, ci stavamo solo noi siciliani che non avevamo dove andare. La caserma era piccola e la assegnarono solo agli studenti. Mentre nelle caserme grandi c’era l’ufficiale, u capitano, il sottotenente, il sergente di ispezione, u capoposto e poi tutti i soldati, da noi non c’era nessuno. C’era solo un capoposto. E là il capoposto ero io.

Nonno si ferma ancora per sorseggiare un altro po' del suo Americano.

Nonno: 

Una volta, in qualità di capoposto, ad un altro soldatu in caserma gli ho cominciato a dire: "Svegliati che ta assusere!" E quiddo m'arrispose: “Uhhhuhhh”.

Io: 

Ma questo a che ora?

Nonno: 

Verso le sei, quando dovevamo cominciare ad aprire le porte della caserma.
Ora ti racconto il bello.
"Sveglia", gli dissi e iddo “Uhuhuhhu”, poi si voltava dall’altra parte. Ciu dissi tre volte, ci dissi infine "Alla quarta volta non te lo dico più!", ma lui niente. Allora io gli feci "Vaffanculo! Io te l'ho detto!" e poi mi andai a coricare. Verso le otto meno un quarto, si sente qualcuno che bussa alla porta bum bum bum bum bum bum... e chi era?
Il capitano, che aveva trovato la porta chiusa.

Io: 

E che vi ha fatto fare?

Nonno: 

In carcere. No, non in carcere, in sala. Eravamo sergenti quindi in sala. Sala che era una stanza al buio, con una lampadina socchiusa. E siamo stati lì otto giorni.

Io: 

Otto giorni?

Nonno: 

Chiusi. Sempre. Ci portavano solo da mangiare.

Io: 

Come? In galera?

Nonno: 

Mah.

In qual momento mio nonno finì il suo Americano e non parlò più di Ventimiglia.

Nonno con mia sorella

Nonno con mia sorella