Impressioni milanesi. La prima attività di Medardo Rosso

Alla metà del XIX secolo, Milano era in fermento. La nuova città fioriva, facendo appassire, nascondendo per sempre, gli orti rigogliosi. Nuovi agglomerati urbani sorgevano ovunque, alcune strade scomparivano dalla mappa della città, come Via San Salvatore e Via dei Due Muri, per lasciare spazio all’imponente Galleria Vittorio Emanuele.

Si era in uno di quei periodi dove ciò che era ormai antico era solenne, ciò che era invecchiato era obsoleto e ciò che era nuovo era raffinato ed elegante. L'Esposizione Universale del 1881 è stata un’ulteriore e definitiva testimonianza del ruolo che la città aveva ottenuto sullo scenario internazionale.

Mosè Bianchi, Veccha Milano. Tram a cavalli al Carrobbio, 1886, Collezione Privata.

La modernità di Milano era fatta di virtù e vizi, di ristoranti e bettole, di fabbriche e di povertà. Non si può prescindere, inoltre, da quei tasselli umani che, in quella corsa al nuovo secolo, sfilavano ubriachi, a passo incerto, vicini ai primi e impressionanti omnibus. Queste categorie sociali del sottoproletariato milanese venivano chiamati, in dialetto, "locch" (teppisti) o "grappatt" (ubriaconi), invisibili ai più, ma non a tutti. Infatti, questi personaggi sono entrati loro malgrado in quell'armonia di suoni nuovi in cui, solo a prima vista, sembrano stonare un poco. La giovane letteratura milanese canta le loro sfortune, la città che si sente artista diviene tale solo quando passeggia e si perde nel grande cantiere, ricevendo stimoli e visioni.

In quel periodo, Medardo Rosso (1858 – 1928), giovane studente d'arte, arrivato a Milano nel 1877, comincia a catturare i protagonisti di questo nuovo folclore urbano attraverso masse accidentate, successioni di luci e ombre e un frammentarsi della superficie con scatti inattesi del modellato. I primi lavori di Rosso, un bestiario di figure antieroiche, colgono degli istanti delle nascenti "vie moderne", impressioni costruite sul reale e completate dal sentimento, avvolte da una materia che le trattiene e le ancora.

Medardo Rosso nel suo studio.

El locch (1881-1882) di Rosso si manifesta nel suo essere reietto. La sua espressione non tradisce una volontà di essere compreso e il suo sguardo non cerca lo spettatore per essere approcciato con compassione o severità. La camicia, il foulard e i capelli sono fatti della stessa pasta: una materia effimera, appena frastagliata sotto le mani del giovane scultore alla ricerca di un suo linguaggio, trattiene il volto di un ragazzo vestito di stracci che vive fortunosamente tra le moderne vie e le storte contrade che stanno per essere spazzate vie dai picconi.

El Locch, 1881-1882.

In "Milano e i suoi dintorni", guida della città per l'Esposizione del 1881, scritta da un gruppo di intellettuali che animavano il periodico "La Vita Nuova", si vuole raccontare la Milano viva e contemporanea dove ai monumenti e ai palazzi, si legano indissolubilmente i mestieri più umili e i bassifondi della città.

El locch è descritto come un essere lontano dalla sua famiglia, "esso ne trova una o la improvvisa" e, vestito delle fogge più diverse con "berretti e cappelli, abiti di panno logori e smunti", sempre cammina in quell'angusto e pericoloso sentiero che separa "il delitto dalla punizione".

Nel 1883-1884, il linguaggio di Rosso è sempre più vicino a quello che lo consacrerà tra gli scultori che hanno dato il via alla rappresentazione moderna. L'opera Se la fusse grappa, attraverso una superficie irregolare, rielabora e frammenta il linguaggio del Realismo tradizionale, presentando un uomo ubriaco, con un logoro cappello, abbandonato al suo stato di incoscienza. Inizialmente, l'opera era stata montata dallo scultore su un'acquasantiera, così da far sembrare che il desiderio di quel volto così deturpato dai vizi fosse il sacro contenuto della base, mettendo in scena quasi una caricatura da rivista.

La figura del "grappatt" è sempre descritta in "Milano e dintorni": "È entrato nel botteghino dell'acquavitaio verso le cinque, di cicchetti ne ha bevuti un rosario, la grappa della bottiglia, senza accorgersi, passò nel bicchierino, dal bicchierino nello stomaco, dallo stomaco alla testa, dalla testa alle gambe".

Nel "Ventre di Milano. Fisiologia della capitale morale", scritto per raccontare la trasformazione della città alla vigilia dell'Esposizione Universale, si menziona anche il declino della morale cattolica, immaginata come non solo qualcosa di non più utile nella società contemporanea, ma come un elemento addirittura dannoso nel nuovo contesto, in quanto "reso obbligatorio l'egoismo non solo, ma il desiderio sincero, naturale, necessario dell'altrui danno".

Tornando alla scultura di Rosso, l’artista aveva aggiunto un altro elemento alla sua composizione: una targhetta con scritto "Indulgenza plenaria", proprio sull'acquasantiera. Il contrasto con "el grappatt" scolpito appena sopra suscita curiosità e ironia, ma la scritta può anche far pensare ad un ultimo rito religioso, un'ultima remissione dei peccati per l’intera umanità; per l'artista che modella epifanie rivelatesi in strada, accantonando eroi classici o personaggi religiosi, per il disgraziato che sparirà dalla storia, trattenuto dalla fugace materia di Rosso e per tutti coloro del vecchio mondo che dovranno fare i conti con una nuova epoca.

La portinaia (1884) mostra la piena modernità della scultura di Rosso. I portieri, nuovi protettori degli spazi privati dal movimento del mondo moderno, sono i protagonisti di varie opere letterarie della Scapigliatura milanese. Rosso ha raccontato che questa scultura è nata dall'ossessione che aveva per una vecchia signora, sempre presente all'uscita di casa dell’artista. Anche qui, l'impressione del momento è legata ad una serie di stati d'animo, l'anziana portinaia, legata all'ambiente circostante, emana un gran senso di solitudine.

La portinaia, 1884.

"Milano e i suoi dintorni" fornisce una chiave di lettura importante per comprendere ciò che Rosso probabilmente ha colto negli stanchi occhi della lavoratrice: "Nel fondo delle sue pupille, nei solchi delle sue rughe, nelle inflessioni della voce, nelle macchie del vestito, nelle sdruciture delle scarpe, nel gesto, nell'andatura del portinaio si depone giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, la polvere, per così dire, della vita della casa".

Ed ecco, tornando a quel cupo capo chino, ci si accorge che quella che si guarda è un’impressione di una relazione che si crea con lo sguardo tra l’essere stesso e chi lo osserva, l’artista: un istante di relazione che cambia la fisionomia attraverso le manifestazioni involontarie del pensiero, del momento e della vita.

Medardo Rosso si traferirà a Parigi nel 1889. Per questo, molto spesso, per il suo stile e i suoi soggetti, è stato avvicinato al termine “Impressionismo”, in maniera piuttosto generica e insoddisfacente. La scultura di Medardo Rosso nasce nella Milano postrisorgimentale, captando le speranze e le delusioni di un’epoca che correva verso una modernità ancora lontana dalla velocità e dalla smaterializzazione futurista, ma che in un certo modo la profetizzava. Le impressioni di Rosso affondano le radici nella quotidianità di una grande città in trasformazione. Le sue sculture sono sfaccettate e immerse in una luce lombarda, riscoperta prima di lui in pittura da Giovanni Carnovali, detto il Piccio (1804-1874) e in scultura da Giuseppe Grandi (1843-1894). Le sue idee avevano radici lontane dall’Impressionismo francese. Egli rivendica la sua “impressione”, un fenomeno che opera sulla materia inserita in precise coordinate spaziali, nell’esperienza reale della visione, avvolta in una luce instabile e mutevole, che lo scultore italiano aveva costruito tra il Caffè Manzoni e il Caffè Carini, tra gli omnibus e i poeti scapigliati, cantori di illusioni e delusioni.