Forse la felicità

Elia era nato tra tanti fratelli, in una casa un po' stretta in cui orbitavano periodicamente molti parenti, parenti alla lontana talmente alla lontana che forse non erano poi parenti per davvero, ma comunque mangiavano e dormivano sotto lo stesso piccolo tetto. Qualche mese un cugino di passaggio per l'università si fermava con la fidanzata e venivano sistematati alla buona nel salone (rigorosamente spartiti in due letti) ed Elia era a quel punto costretto su una brandina bitorzoluta, accanto al letto matrimoniale dei genitori. Nonostante il russare implacabile del padre ed un crocifisso in legno che pendeva dalla parete opposta con espressione particolarmente cupa, Elia dormiva placidamente fino alle prime ore del mattino quando la madre arrivava per svegliarlo e spedirlo a scuola. La mattina era sempre un momento delicato, c'era chi dormiva più a lungo e chi era sveglio già da un po', con camicia inamidata e caffè fumante, pronto per la giornata di lavoro. Elia camminava perciò in punta di piedi fino alla cucina, nel timore di svegliare qualcuno lungo il tragitto. Il pomeriggio, al rientro da scuola, si portava dietro un paio di  compagni affamati, che si mescolavano prontamente ai parenti nella casa: la madre prendeva un'espressione severa ma il padre silenzioso e bonario accoglieva con un sorriso baffuto chiunque varcasse la soglia. Si finiva poi sempre per offrire le porzioni più abbondanti agli ospiti inaspettati. Era una quotidianità instabile quanto regolare, cadenzata da uno scambio continuo e una mescolanza irregolare. Una quotidianità felice, tutto sommato.

Avvenne però un fatto inaspettato che arrivò a schiantarsi di netto contro le mura protette della casa, e in un giorno improvviso di incomprensibile dolore il padre si ammalò gravemente di una malattia repentina e fulminea che colse tutti impreparati. In poche settimane il baffo ridente che aveva accolto tanti sconosciuti si congelava su un ultimo sorriso di benvenuto e l'armonia mobile di cui aveva partecipato la casa si disperdeva irreversibilmente.

I numerosi cugini smisero di abitarla a periodi e anche i parenti più lontani non si presentarono quasi più se non per brevi e tristi visite di cortesia. Elia ricevette una stanza tutta per sé e solo raramente gli toccava di cederla, le poche volte che ancora qualcuno rimaneva a dormire. In quelle occasioni tornava nella camera semivuota dei genitori ma non dormiva più nella brandina bitorzoluta: si infilava direttamente  accanto alla madre, con il crocifisso davanti che lo guardava. Ignorare lo sguardo dolente del cristo era adesso difficile ed Elia passava notti insonni cercando di combattere la visione angosciante del volto martoriato  dalla corona di spine. Chiudeva a fatica gli occhi, ma sotto le palpebre rimaneva come scolpita quell'immagine terribile e mortificante. La mattina si alzava senza essersi veramente riposato e si trascinava lentamente per la casa ancora per metà addormentato, portandosi dietro il pensiero indelebile del crocifisso. A scuola si sentiva spossato, a casa si sentiva solo. Quel crocifisso a lungo ignorato sulla parete dei genitori, si era improvvisamente  annidato nel suo cervello in un'immagine fissa di sofferenza.

Volle trovare delle risposte teoretiche e s'iscrisse alla facoltà di filosofia;  volle poi trovare una risposta pratica e prese  forsennatamente a studiare la chitarra classica, ma soprattutto blues, che accompagnava intonatamente i pomeriggi solitari nella casa ormai quasi vuota. Si trascinò lentamente per molti anni a venire finché quasi senza accorgersene divenne un uomo ed ebbe una casa tutta sua dove non entrava più nessuno ma i designati abitanti, Elia la moglie ed un unico figlio. Raramente ripensava alle mattine passate con i fratelli e i cugini a colazione, con le tazze di caffè bollente che la madre preparava e distribuiva in punta di piedi per non svegliare chi ancora dormiva. Il nuovo appartamento contava tre stanze principali, quella del figlio, spaziosa e munita di qualsiasi cosa un bambino potesse desiderare, la stanza  matrimoniale, illuminata da una grande finestra, ed infine uno studio piccolo e riservato dove Elia si chiudeva in silenzio per ore, tagliando fuori gli altri membri della famiglia. Se ne stava lunghi pomeriggi a leggere, non più filosofi tedeschi come era stato ai tempi della gioventù, ma noir americani che gli piacevano principalmente per quella distinzione  sicura che operavano tra il bene ed il male. Si era convinto che la felicità fosse in qualche modo nascosta nelle pagine di quei libri: in una casa con un enorme giardino, in qualche zona non troppo arida del Texas, in una sedia di legno sulla veranda e nel fedele scodinzolio di un cane.

Un giorno non particolarmente diverso dagli altri il figlio di Elia con candore infantile rivolse al padre questa strana ma anche semplice domanda, ovvero quale fosse la sua più grande ambizione. Elia ci pensò un poco e disse che nella vita la sua ambizione più grande era quella di esser felice. Il figlio rifiutò questa risposta e gli ricordò piuttosto che la felicità non era da considerarsi un obbiettivo come quello di diventare medico o pittore. Elia ci pensò di nuovo su ma non seppe cosa rispondere, tuttavia quello stesso giorno si accorse improvvisamente che dal piccolo balcone dello studio si apriva una vista poco urbana che forse, con uno sforzo importante di fantasia, poteva ricordare vagamente una veduta immaginaria del Texas. Qualche giorno dopo portò a casa un cagnolino che aveva trovato lungo la strada e che già lo guardava con gli occhi del completo abbandono; gli versarono del latte in balcone e si raccolsero tutti intorno al nuovo venuto. C'era una brezza serale, qualche sedia pieghevole e l'intera famiglia  davanti ad un immaginario paesaggio texano: Elia accarezzando il pelo folto del cane si ricordò allora delle grandi cene nella vecchia casa e pensò che, anche quel momento cui stava ora partecipando, poteva considerarsi come un'ipotesi di felicità.