Le lacrime amare di Petra Von Kant o il kitsch sublime

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Prezioso come una gemma finemente lavorata, il celebre film di Fassbinder stupisce per la ricercatezza registica e l’estetica sfacciatamente camp. Un film che, si direbbe, vive di una dimensione intimamente teatrale (originariamente “Petra von Kant” era una pièce), e che invece mostra tutte le potenzialità di un cinema audace che si vuole fine indagatore delle psicologie del visuale e dei suoi movimenti fisici e psichici. La tradizione smaccatamente tedesca del Kammerspielfilm, film da “camera” che mostrano drammi borghesi, rivive qui in tutto lo splendore di un cinema che non ha paura di essere seducente e fascinoso. La macchina da presa, infatti, in linea con gli stilemi del genere, si muove in uno spazio estremamente ridotto: siamo nella lussuosa casa di una famosa stilista tedesca, proveniente da una famiglia di ascendenza nobiliare, come testimonia il cognome. Non si esce da questo spazio che appare perfino angusto, posticcio: si tratta infatti di un set che non nasconde la propria natura artificiale. Anzi, la esibisce sfacciatamente. La gigantesca stampa di un quadro di Poussin che copre un’intera parete sottolinea l’incongruità di tale spazio, ribadendo come il fatto che non si tratta certo di un posto adatto per la vita.

         È su questo palco che avviene l’infelice storia di amore di questa donna - disgustata dagli uomini dopo infelici esperienze passate - per una giovane ragazza, Karin, che accoglie in casa sua e che presto diventerà la sua carnefice. La relazione appare da subito malsana e unidirezionale. Dopo averla aiutata, dando prova di una generosità vistosa e sospetta, la ragazza deciderà di tornare dal marito, lasciando Petra distrutta. L’abisso di disperazione che si dischiude ha come contraltare tutto l’artificio che deborda in una casa che diventa sempre più inquietante e aliena (si vedano le bambole e i manichini). La magrezza di Margit Carstensen, esaltata da abiti ingioiellati che rivelano la sua natura di regina dei ghiacci, mostra una sensualità particolare che ritroviamo nelle donne dei quadri manieristi della scuola di Fontainebleau, o nelle opere di Hans Von Achen e di Bartholomeus Spranger. Tutte le contorsioni di questo corpo perfetto e sottile, vibrante come una colonna tortile e sonoro come una sinfonia altissima e discordante, esplodono nell’epilogo infelice, ma catartico, che chiude la vicenda.

         È il momento della resa dei conti, e Petra – oramai abbandonate parrucche e mise eclettiche e glam – guarda con lucidità la reale identità del suo sentimento. Il desiderio di possesso, ecco cosa di celava dietro la sua spasmodica gelosia. Desiderio di ottenere e modellare Karin come voleva lei. Farla sua, possederla intimamente per poter trarre da lei un piacere narcisistico. Una tale dinamica non poteva che finire in tragedia, sebbene la ragazza – scaltra e insensibile – non si sia fatta scrupoli a sfruttare tale situazione a suo vantaggio. Nel tentativo di approfittarsi, in modi diversi, l’una dell’altra, quello che emerge è uno scenario umano che contempla due schieramenti: quello dei vincitori e quello dei vinti. Tutto il mondo di Le lacrime amare di Petra von Kant è segnato dalla dialettica servo-padrone di Hegel, un mondo fatto di vittime e carnefici, dunque, in cui le persone agiscono catturate da una spirale di violenza e sopraffazione che non lascia spazio all’empatia come al riscatto. Non vogliamo rivelare cosa avviene nell’ultima scena del film, ma ci limitiamo ad affermare che è assolutamente significativa, anche perché è qui che emerge tutto il torvo pessimismo di Fassbinder.

         I rimandi autobiografici presenti nell’opera complicano lo scenario: Petra e Karin sarebbero nella realtà lo stesso regista e Günther Kaufmann, prigionieri in vita dello stesso schema relazionale malsano. Quello che avviene, dunque, è una traslazione delle dinamiche omosessuali in quelle lesbiche. In un altro film, Il diritto del più forte, di pochi anni successivo (1975), Fassbinder mostrerà invece le miserie delle dinamiche relazionali fra uomini, con uno stile assolutamente antitetico. Sobrio e asciutto, questo film non ha niente della sfarzosità e della ricercatezza eccessiva di Petra. Tuttavia, questo minimalismo e questa connivenza con un certo tipo di bruttezza e volgarità ci rimandano a uno dei suoi primi film: L’amore è più freddo della morte. Come non pensare, dopo Petra e Il diritto del più forte, che la forza di questa dichiarazione riassuma tutta la potenza del suo credo ateo di regista e uomo, e che in questo essere terribile si rivela tutta la bellezza di un cinema che non si fa e non propone illusioni. Si tratta infatti di una formula estremamente efficace, che riassume tutta la sua carriera registica. Fassbinder ci cattura ancora oggi per trasportarci in un inferno relazionale in cui – se disposti ad accedere a tale livello di sincerità con se stessi – chiunque può tragicamente rispecchiarsi in un ruolo o nell’altro, alternativamente. Come viene affermato nel film in un momento di crudele concisione “credo che l’essere umano per sua natura abbia bisogno dell’altro. Non ha però imparato come si fa a stare insieme”.

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