Omaggio a Lea Vergine: “L’arte è come una benzodiazepina”

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Martedì 20 ottobre 2020 muore Lea Vergine, scomparsa appena un giorno dopo Enzo Mari, compagno con cui aveva condiviso intensi e lunghi anni di vita. La causa potrebbe essere una complicazione dovuta al Covid-19. I giornali già sfruttano l’hype mediatico causato dai morti per la pandemia per sbandierare la loro fine e inserirla fra quella di persone, famose o anonime, che viene messa in prima pagina, monumentalizzata in un certo senso, prima di un nuovo oblio. A seguito di tale evento, tragica perdita in un momento in cui la vita culturale sembra congelata, occorrerebbe rileggere la sua opera per riflettere sul valore dell’arte e della cultura. Esigenza essenziale, oggi più che mai.

In questa mia breve riflessione voglio partire da alcune citazioni, di quelle che fioriranno come tappeti di margherite e papaveri sul web in articoli tributo-omaggio analoghi a questo, migliori, peggiori, più o meno speculativi nei due sensi che offre il termine. Questo, per muovermi a partire dalle stesse parole di Vergine, cercando (e osando) di farmi interprete dei suoi stessi pensieri. Le benzodiazepine nominate nel titolo, alleato indispensabile per tanti tipi di pazienti, offrono una metafora icastica e penetrante che ci aiuta a parlare anche del nostro presente.

Critica d’arte militante, radicale, femminista (termine che oggi andrebbe usato con attenzione, per evitare di omologare al suo pari derive che sarebbe meglio etichettare come femministoidi), Vergine in Italia ha lasciato il segno tramite il gesto provocatorio che ha compiuto con la sua opera, trasmettendo i contenuti eversivi di una nuova politica identitaria, sessuale, corporale che intanto dagli anni Sessanta andava delineandosi ed espandendosi in tutto l’Occidente. Il potere “urticante” di questa operazione storica e critica non si esaurisce nel dialogo con un contesto più ampio, internazionale e rivoltoso, ma in un discorso profondamente incarnato e innovativo teso a indagare il fare artistico in maniera rigorosa e penetrante; esplorando dalla carne allo scheletro per passare attraverso tutto gli elementi che compongono il corpo dell’artista, come quello dell’arte.

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“Irritarte. Appunti per l’analisi delle comunicazioni irritanti” la mostra curata nel 1969 alla Galleria Milano a Napoli - città natia di Vergine, oggetto di sentimenti ambivalenti – già dal titolo si annuncia come un evento emblematico. La critica qui raccoglie le opere di artisti trasgressivi come Gianfranco Baruchello, Tetsumi Kudo, Curt Stenvert, Alina Szapocznikow, che hanno mostrato il lato polemico, audacemente, e felicemente, distruttore dell’oggetto artistico. Contro le convenzioni e le maschere sociali. L’ironia è uno dei tratti caratteristici della penna e del pensiero di Vergine. Un’ironia pungente che trapela nelle numerose interviste, e che la dice lunga sul suo stile di pensiero.

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Ma è anche nella prolifica attività critica che Lea Vergine esprime il suo essere trasgressivo. Per citare solo due dei suoi testi più importanti e noti presentiamo Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio (1974), opera cardine per la riflessione su un nuovo genere di arte che si stava affermando, e che rivendicava il corpo quale medium peculiare. L’altra avanguardia. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche (1980) è un testo che compie un importante opera di recupero di tutti quei nomi “dimenticati” dalla storia dell’arte al maschile che si era imposta come unica storia canonica possibile, la dogmatica norma. Emergono nomi come Camille Claudel, Berthe Morisot, Mary Cassatt, Varvara Stepanova, Gabriele Münter, Marianne von Werefkin, Leonor Fini, Leonora Carrington, Dorothea Tanning, Frida Kahlo, figure spesso ancora oggi mitizzate o oscurate dai colleghi/compagni maschili.

Se in Italia c’è la collega Carla Lonzi, sul versante internazionale ci sono Griselda Pollock, Mary Garrard, (entrambe celebri per le riflessioni su Artemisia Gentileschi), Linda Nochlin (che riflette sull’impossibilità di applicare il modello di “grande artista” alle artiste), studiose che lavorano come lei non tanto a compensare questa lacuna del “femminile”, mirando piuttosto alla riscrittura di una nuova storia dell’arte, non ipocritamente inclusiva, ma essenzialmente diversa.

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Ora veniamo a una delle citazioni cui si faceva riferimento nell’incipit di questo articolo: “L’arte non è necessaria. È il superfluo. E quello che ci serve per essere un po’ più felici o meno infelici è il superfluo”. Riflessione che emerge dalla conversazione di Vergine con Stefania Gaudiosi (tratta da Necessario è solo il superfluo. Intervista a Lea Vergine, Postmedia Books, Milano, 2019). In tempi di emergenze sanitarie e pandemie si discute, sovente e a più riprese, sul non-valore del superfluo, su quello che sarebbe più o meno giusto sacrificare in nome di non si sa quale ideologia dell’essenziale, orientata utopicamente (o fanaticamente) a ritornare alle “cose vere”, “autentiche” dell’esistenza. L’uomo potrebbe essere in fondo più vero, meno artefatto da questo presente evanescente e caotico, se si accontentasse delle cose autentiche, e poche sarebbero tali. Ma noi non sappiamo cosa ci rende umani - se esiste una proprietà fondamentale in grado di rivelacelo, come un’epifania o un disvelamento senza fine – né, oramai, se lo siamo ancora. Addirittura: lo siamo mai stati veramente? Problematiche che si palesano alla mente come un groviglio di questioni intricate e interminabili, che forse possono essere dipanate, in parte, grazie alle provocatorie parole di Vergine.

Possiamo soffermarci su un punto per avvicinarsi al fulcro del problema senza disperderci in esso: partendo dalla metafora della benzodiazepina che Vergine usa per definire il ruolo dell’arte e che abbiamo utilizzato come titolo del presente omaggio alla critica, figura retorica quanto mai efficace. Sappiamo che ansiolitici e anti-depressivi non salvano direttamente la vita delle persone. Intervengono in maniera segreta, sotterranea, eppure il loro intervento, unito a quello offerto dall’ascolto psicoterapeutico, può essere più efficace di un bisturi, un vaccino, un medicinale appena brevettato nel più futuristico laboratorio israeliano. La vita vera, in fondo, non coincide con quella biologica, e in quanto animali culturali la nostra sopravvivenza non sopporta la riduzione a vita nuda, incalzando un bisogno di senso che si rispecchia in altre esigenze “secondarie” ai fini della sussistenza della specie, quello di godere e di sapere.

Quello che penso voglia dirci Vergine tramite questo paragone icastico, lezione tanto più vitale in un momento come questo in cui l’intero mondo culturale sembra essere messo ambiguamente in stand by, è che l’arte ha un valore essenziale in virtù della sua dimensione superflua. Precisamente in quanto tale, non malgrado quest’essere un lusso, una roba da ricchi, intellettuali o feticisti. Necessità essenziale di tutto ciò che apparentemente costituisce il “superfluo”, vertigine di questo paradosso delizioso. Ma anche provocazione. Allora questa arte-che-è-una-droga, ma anche una medicina (senza porsi illusoriamente come una panacea che finge di risolvere tutti i mali), costituisce l’occasione in quanto oggetto e luogo, fisico o spirituale, in cui poter soddisfare questo bisogno, superfluo ma non superficiale, di godere come di sapere in quanto uomini, donne, animali culturali che ardono al desiderio di riscoprirsi, esporsi a innumerevoli nuovi provocazioni capaci di rimetterci in discussione. Questo, oggi più con mai, con coscienza e consapevoli del rischio giocoso che l’arte, irritarte, ci riserva col suo sorriso benevolo-malevolo, innocente-crudele, irrinunciabile.

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