Incantesimi e fatture della letteratura: Shirley Jackson

Qualche settimana fa ho terminato L’incubo di Hill House di Shirley Jackson, proposta del mese di febbraio del gruppo di lettura a cui partecipo. Nonostante il romanzo non mi sia piaciuto in maniera particolare, l’ho trovato interessante e pieno di spunti da cui partire per parlare ancora di letteratura, e di ciò che si può dire – o non dire – attraverso di essa.

Già qualche mese fa, Shirley Jackson aveva attirato la mia attenzione durante la lettura di Paranoia, e avevo pensato di scriverne. Non tanto per il racconto che dà il titolo alla raccolta di scritti postumi (anche se è probabilmente tra i migliori che abbia mai letto), ma piuttosto per alcune riflessioni intorno alla scrittura e al processo creativo. In particolare, mi avevano colpito alcuni fumetti stilizzati, tra un capitolo e l’altro del libro, uno dei quali la ritraeva al telefono mentre diceva “Perché vede, Mr. Covici… Prima devo lavare le cose del piccolo, e poi metter su la cena, dovrei scrivere un paio di lettere, e dopo mi siedo e comincio quel nuovo romanzo che aspettate”. Mi ricordo di aver annuito mentre leggevo.

Lei stessa, per descrivere la sua vita quotidiana, sceglie queste parole: “Sono una scrittrice che, a causa di una serie di sbagli innocenti e avventati, si ritrova con una famiglia di quattro figli e un marito, una casa di diciotto stanze e nessun aiuto, e due cani danesi e quattro gatti e, se è sopravvissuto così a lungo, un criceto. Potrebbe esserci anche un pesce rosso da qualche parte. In ogni caso, ciò significa che ho al massimo poche ore al giorno da passare alla macchina da scrivere”. E, nonostante il poco tempo libero che immagino potesse avere, mantenne l’abitudine di scrivere almeno mille parole al giorno fino alla fine della sua vita.

Della vita di Jackson, prima di leggere Paranoia, sapevo molto poco, ma ne avrei saputo di più continuando a leggere la raccolta. Mi ero immaginata una donna single, moderna e indipendente e mi ritrovavo davanti una casalinga, moglie e madre di quattro figli. Qualcosa nel mio immaginario ha fatto crack. È evidente che anche in quest’epoca soffriamo di alcuni preconcetti quando pensiamo al lavoro artistico, alle donne, e all’intersezione che può venire a crearsi tra le due cose quando si incontrano. È pur probabile che in questo momento storico di femminismo un po’ strillato e fatto di slogan, è difficile immaginarsi che qualcuno di così incasellato negli schemi borghesi del tempo potesse provare la scintilla di perseguire obiettivi e ambizioni personali, men che meno una donna. Insomma: o tutto, o niente. O l’artista libertina o la donna di casa.

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Invece, la storia personale di una scrittrice come Shirley Jackson ci insegna che anche un’idea di liberazione femminile strisciante e un po’ sottesa può fare la differenza. D’altronde, è una donna “che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce” come scrive nella dedica del suo romanzo L’incendiaria Stephen King, autore che non ha mai fatto mistero di considerare Jackson uno dei suoi più grandi maestri.

Da bambina sofferente per le critiche della madre che la considerava brutta e sgraziata, a sposa di un critico letterario che si dimostrò maschilista, retrogrado, traditore (e forse pure invidioso), Shirley Jackson combatté sempre con la sua scrittura gli stereotipi nei quali ogni donna del tempo doveva rientrare. E anche se alcuni di questi la riguardavano di certo, si oppose a suo modo a chi la voleva una casalinga col vitino stretto e il naso incipriato dietro le quinte: e allora ingrassò, non si curò della sua bellezza, trasformò la sua casa in un ritrovo per intellettuali, bevve e fumò fino all’ultimo dei suoi giorni (pochi). Questo suo essere a metà strada tra due figure – l’angelo del focolare da un lato, l’anticonformista bizzarra dall’altro – non giunse mai a un compromesso, anzi: Jackson fu spesso criticata da ambo le parti, e questo la portò a sentirsi esclusa dalla comunità.

Il disagio provato sulla sua stessa pelle condusse la scrittrice a comprendere in profondità la condizione femminile del suo tempo. Le donne erano costrette a reprimere gli aspetti più selvatici del loro carattere, a farsi piccole piccole per entrare nelle caselle che la società aveva già disegnato per loro, senza mai sbavare fuori dai contorni. L’esperienza di essere una donna negli anni Cinquanta, in un paese che viveva di apparenze e dove far parte della borghesia era tutto, unita a quella di essere prima figlia, poi moglie e madre insoddisfatta, portò Jackson a dare forma e voce attraverso le sue pagine a quella frustrazione, che era non solo personale ma universale. Riuscì a farlo maneggiando con cura il genere a cui si dedicava, quello gotico, e affidandosi a temi ricorrenti nella sua poetica, di cui ella stessa subiva il fascino: il soprannaturale, l’esoterico e lo stregonesco.

Le protagoniste dei romanzi di Shirley Jackson sono donne poco incluse nel tessuto sociale, non del tutto capaci di relazionarsi, ossessionate dall’idea di essere inadeguate e, contestualmente, disprezzate. Escono dal contesto conosciuto e familiare per cercare un consenso in un territorio altro, atto che si rivela non solo fonte di ansia, ma di ulteriore sopraffazione. Il turbamento e l’incoscienza che le caratterizzano sono direttamente proporzionali al potere incantatore che posseggono, e che le rende spaventose agli occhi delle altre donne, ma soprattutto a quelli degli uomini. Jackson riesce a tratteggiare in maniera convincente questi personaggi disturbati e disturbanti, riflesso del disagio delle donne di quei tempi, a metà strada tra la voglia di liberarsi e la paura di farlo. E, per farlo, usa il più grande potere in suo possesso: la letteratura.

Shirley Jackson era una casalinga, madre di una prole consistente e moglie di un uomo importante. Anche oggi, a qualcuno sembrerebbero caratteristiche di un certo rilievo, da riportare in un articolo di giornale prima ancora di parlare dei meriti della signora in questione.

Sembrava sparire, inghiottita da tutti questi ruoli e dalle incombenze che comportavano. Non spariva, però, nelle ore che dedicava alla sua macchina da scrivere, e a sé stessa, nella libertà che la letteratura le concedeva.

Ma siamo qui ancora, a ricordare la scrittrice. Non la casalinga, la moglie, la madre.

Alla fine, ha vinto lei.