Gianni Menichetti, l'eremita del canyon selvaggio

Nei bollori fumidi e incendiari di un agosto rovente, nemmeno il mare dona un refrigerio alla carne, che rischia ustioni su pietre dardeggianti. Bisogna andare Altrove per fuggire la calura, lontano dai lidi caotici e dai rampolli mondani in cerca della posa perfetta nel paesino colorato abbarbicato sulla roccia.

Si dice che in un canyon viva un eremita, solo, senza elettricità o altre forme di modernità. Infinita curiosità di conoscere questo moderno anacoreta e il luogo in cui vive da ormai quasi dieci lustri!

Il Vallone Porto è avvolto nel mistero. Tutti a Positano sanno dove si trova, ma nessuno ci è mai stato. Anche Gianni Menichetti è conosciuto dalla gente del posto, ma spesso è visto con sospetto.

“Si vede in giro in paese, è un tipo strano!”.

Ci dicono che vive con una muta di cani ed altri animali, e che è stato per anni il compagno di un’artista e danzatrice australiana che ha vissuto a lungo nel Canyon, Vali Myers, una sorta di strega (o janara, come si dice da queste parti) dal fascino perturbante.
Con poche e sommarie indicazioni ci incamminiamo. Dopo qualche curva della statale amalfitana arriviamo all'imbocco della forra, dove si apre un vallone stretto fra le rocce.

Ci addentriamo nella fitta boscaglia quasi amazzonica, fra antichissime felci poderose, relitti di ere primordiali, piccole piante carnivore, manti di muschio e pietre addomesticate che tornano sedimento. Scendiamo nella gola. In pochi metri i suoni della strada scompaiono, lasciando posto allo sciabordio del fiume, al rintocco di qualche nottola o di altre creature alate e ctonie. È come un viaggio catabasico, tocchiamo il fondo del canyon dove il sole sembra morire lasciando spazio all’oscurità, per ricominciare poi la risalita, l’anabasi. Ad ogni passo lo scricchiolio del terreno rivela la presenza di altre forme di vita, di creature misteriose. Il sibilo del vento che fa suonare l’ontano si confonde con la serpe, l’atmosfera cupa mette in guardia il visitatore curioso, eppure il profumo della menta selvatica e l’odore resinoso del lentisco rassicurano l’inconscio e alleggeriscono la tensione. Si direbbe un giardino edenico, ma qualcosa di sinistro aleggia nell’aria.

Da lontano si cominciano a sentire i latrati dei cani che devono aver odorato la nostra presenza.

“Ecco, deve essere laggiù!”

In lontananza si scorge il padiglione moresco che ci appare come un pavone variopinto, un edificio d’altri tempi e di luoghi remoti, porzione di kasba, memoria di Gompa.

Il padiglione moresco. Disegno di Mattia Cucurullo

Il padiglione moresco. Disegno di Mattia Cucurullo

Scorgo un uomo uscire dal padiglione, è a petto nudo. Si avvicina rivestendosi con una camicia rossa. I cani gli scorrazzano intorno, si lasciano andare in abbai iracondi infastiditi dalla nostra presenza.

“Shut up guys, be quiet!”. Con doti orfiche o da novello Francesco, l’uomo tranquillizza le bestie, mettendole a tacere.

“Chi siete?”. Mi faccio avanti e provo a spiegargli cosa ci ha spinti nel Vallone.

Mi osserva con occhi neri da fenicio. Il mio sguardo si perde negli infiniti dettagli del suo viso argilloso. Le rughe sono solchi arati intorno agli occhi e la fronte è un cretto nel deserto. Noto gli innumerevoli tatuaggi, esotici simboli e disegni sparsi ovunque. Le folte basette che finiscono in lunghe treccine tortili gli conferiscono insieme al turbante un aspetto levantino, da gitano o da pastore anatolico.

Iniziamo a parlare. Sembra aver accettato la nostra visita, a differenza dei cani che ancora lamentano i nuovi odori e richiamano l’attenzione.

“Ehi ehi ehi, come on now!”.

“Come sei finito qui? Perché hai deciso di trascorrere la maggior parte della tua vita in questo canyon?”.

Comincia a raccontarci di un lontano passato, quando Positano era solo un borgo di pescatori che calamitava artisti, scrittori e personaggi singolari. Lui, appena diciottenne, venne a Napoli dalla Toscana per studiare lingue orientali, affascinato dalla cultura asiatica. Lì conobbe un lama tibetano che lo condusse in questo luogo, dove abitava già da anni Vali Myers. L’artista australiana lo stregò totalmente, fu un incontro rivelatore e scatenante, un’apparizione che gli toccò le corde più profonde dell’animo. Furono compagni per tre decadi. Vivevano insieme nel Vallone, prendendosi cura del canyon selvaggio e della sua ricchezza floristica e faunistica, opponendosi ai vari tentativi di disboscamento e danneggiamento dell’habitat. Innumerevoli gli animali che la coppia ha accudito: l’amore di Vali per le volpi fu talmente forte che finì per assomigliare al rosso canide, e poi le centinaia di cani che hanno avuto nel corso degli anni (352), la tartaruga che ancora sopravvive da oltre un secolo, ed altre specie più o meno bizzarre.

Oggi Vali non c’è più, a fare compagnia a Gianni nelle lunghe e umbratili giornate è, insieme alla sua famiglia animale, una ragazza greco cipriota che da diversi anni vive nel canyon con lui. Da alcuni mesi però la giovane è partita, si trova a Londra e lui non sa se tornerà. Così, nella infinita solitudine ai piedi delle aspre rupi, egli è rimasto il solo guardiano del Vallone Porto, difensore ultimo e prezioso di un microcosmo tanto fragile quanto importante.

Ci parla della Salamandrina terdigitata, meglio nota come salamandra dagli occhiali, un rarissimo e minuscolo anfibio endemico. Ne parla con amore, con la stessa enfasi con la quale parla di Vali. Ci sono poi nell’Oasi il bronzeo rospo Bufo bufo e la terrosa Rana italica, due specie di anuri (anfibi senza coda). Gianni si sente come una grande chioccia, una madre che deve accudire queste creature fragili e vulnerabili alla minaccia umana.

La Salamandrina terdigitata. Disegno di Mattia Cucurullo

La Salamandrina terdigitata. Disegno di Mattia Cucurullo

“Sono decenni che stiamo cercando di fare una delle cose più difficili del mondo contemporaneo: lasciar stare la natura!”. Lamenta il comportamento incivile dei suoi vicini, gli abitanti dei paesi al di sopra delle rupi che gettano qualsiasi tipo d’immondizia nella valle. “Nelle antiche mappe geografiche quando si arrivava nel deserto dove non c’erano abitanti c’era scritto hic sunt leones. Oggi qui vorrei scrivere hic sunt cafones”. Non ha un ottimo rapporto con la gente locale, come più in generale con i frenetici tempi moderni. Vive come un antico, se non fosse per i pochi oggetti di comodità che si è concesso come una bombola a gas e una radiolina a pile.

Parla della sua casa come di una tana, un giaciglio nel quale ama tornare ogni notte dopo essere stato nel canyon o in paese per fare la spesa. Il padiglione moresco è allo stesso tempo palazzo e tugurio, tempio e capanna.

Gli chiediamo come passa qui le giornate, che cosa fa nelle lunghe e silenziose ore. Oltre alla cura degli animali legge e scrive molto, poesie principalmente. “La poesia moderna è prosa tagliuzzata e scritta sotto forma poetica, non è vera poesia, io scrivo in endecasillabi. Ho scritto poemi epici alla mia capra favorita, ormai scrivo in inglese perché è diventata la mia seconda lingua grazie a Vali”. Entra dentro a prenderci un suo libro, un breve scritto che racconta la storia del Vallone Porto.

La sera, tornati a casa nel mondo “civile”, sfogliamo il libricino e leggiamo qualche pagina: “Ma qui il progresso non è mai arrivato, neppure l’elettricità che giù in paese è giunta nel 1933. Mentre scrivo nel cuore dell’oscura, silenziosa e profondissima notte l’ultimo breve capitolo di questa breve storia, alla luce un po' fioca ma dorata d’una lampada a gas, amo immaginare come un gufo sorvolando possa nelle tenebre vedere il piccolo padiglione moresco con la cupola bianca e la fievole aurea luce al suo interno, ove siedo. I cani dormono intorno al focolare, le bantam appollaiate sugli alberi, le tortore del deserto nella loro voliera, che proprio di notte pullula di topolini selvatici che lì hanno scavato un’infinità di tunnel e tane, le anatre intorno al loro stagno mentre i gatti si trovano i rifugi più comodi e nascosti sotto ogni tettoia e l’antica tartaruga i più imprevedibili anfratti; piene di pesci sono le vasche e le anguille spuntano fuori dalle loro vellutate tane di fango. Il progresso che ha mutato il mondo intero negli ultimi decenni, qui non ha messo piede. […] È strano ma vivendo in tal estrema minoranza umana, nel cuore della natura selvaggia, la coscienza dei propri confini si fa sentire assai forte, e così pure l’istinto d’occupare il minor spazio possibile e di non oltrepassarlo rimanendo fedeli alla precaria situazione d’essere un ospite nella natura come lo sono i ragni, i rettili, le api, i topolini, gli uccelli e ogni altra creatura selvatica che ci circonda. Forse questa è la mia unica vera religione”.