Gian Marco Griffi, “Ferrovie del Messico”

Candidato al prossimo Premio Strega, ne avevo letto commenti entusiastici che facevano sperare in una lettura ricca e affascinante ed ho quindi acquistato profondamente fiducioso il libro dalla copertina accattivante. Nonostante l’angoscia nel rendermi conto del numero delle pagine, a causa di una lettura che si preannunciava lunga, ho mutato d’animo pregustando quello che si annunciava come un prolungato piacere della lettura.

Devo subito confessarlo: per le prime duecento pagine circa ho percepito qualche godimento, ho trovato un certo appagamento degli entusiasmi che altri lettori avevano trasmesso a me. Il mio lapis ha sottolineato qualche frase, ha racchiuso con l’arzilla forma di un cerchio qualche parola giocherellona, fra quelle più insolite che ho incontrato.

Dopodiché, il voluminoso volume ha iniziato ad incancrenirsi, probabilmente ignaro del male che lo consuma e annienta. Si dice che l’uomo più alto del mondo avesse poca sensibilità agli arti inferiori e che sia morto a causa di un’infezione alla caviglia di cui non si era accorto. Al di là della leggenda, vera o meno, scientificamente verosimile oppure ridicola, l’esempio calza a pennello: dato che i libri non rispondono a leggi fisiologiche, posso dire che molto probabilmente la mole di carta ha soffocato l’agonia dello scritto lasciando dilagare la malattia latente. Prima di tutto, se si commette l’impudenza di scrivere ottocento pagine bisognerebbe assicurarsi di avere qualcosa da dire.

Griffi, paradossalmente, sembra brancolare nell’indecisione, vorrebbe dire tutto, vorrebbe creare un libro, di più!, due libri, di più!, dieci libri tutti insieme!, tracima, riversa parole e parole e parole sul lettore e, alla fine, non racconta niente. Pare che in questo unico volume Griffi abbia inserito capitoli di tutti i libri che evidentemente ha sognato di scrivere.

Ogni scelta da lui compiuta concorre all’indecorosa confusione che schiaffeggia il lettore e che lo scrittore non è stato in grado di ammansire. Le singole scelte stilistiche, considerate a sé, non sono un male a prescindere, ma la loro somma genera una creatura ipertrofica e proteiforme: i capitoli non seguono l’ordine cronologico degli eventi; la voce narrante cambia quasi in ogni capitolo, dalla prima alla terza persona singolare, talvolta cambiando all’interno dello stesso capitolo; i capitoli sono talvolta in forma didascalica, talvolta in forma di diario personale, talvolta in forma di deposizione, talvolta in forma di lettera, talvolta in forma di visione e così via; i capitoli, molto spesso, cominciano in medias res: sfruttando una trovata che a lungo andare stucca come una cucchiaiata di maionese, il soggetto che racconta nel capitolo precedente non è più quello che parla nel capitolo successivo, costringendo il lettore al continuo sforzo di capire chi stia parlando e di cosa; alcuni capitoli sono dei piccoli racconti autoconclusivi che nell’economia del libro sono completamente inutili - e assolutamente ridicoli, in particolare quello su Hitler e quello sulla fabbrica di colori.

Credo sia chiaro che protrarre questo gioco per ottocento pagine sia estenuante. Un bel gioco dovrebbe durare poco. Lo sa bene Baricco, subodorato modello da cui Griffi, a me sembra, abbia emulato lo sdolcinato sentimentalismo, la voglia di stupire, la voglia di esibire il talento poliedrico. Baricco non ha mai avuto l’ardire di somministrare al lettore tanta prolissa retorica, i suoi romanzi sono perlopiù brevi, ma Griffi ha la faccia tosta, o l’incoscienza, di farlo: apre la ruota per mostrare tutti gli ocelli della coda che possiede, più tutti quelli che vorrebbe avere.

Evidentemente colto da continue sincopi di kierkegaardiana memoria, Griffi non è in grado di usare meno di due aggettivi, rigorosamente fra loro sinonimi, per descrivere qualunque cosa. Come se non bastasse, estremizza a tal punto l’amore che deve avere per la parola - da me tanto decantato - degenerandolo in nozionismo, perciò le sue pagine diventano spesso, troppo spesso, una serie inesauribile di elenchi: elenchi di parole tecniche che designano, per esempio, strumenti agricoli, elenchi di nomi tedeschi, elenchi di azioni, elenchi di desideri infantili, elenchi di metafore sulla tilde e così via. Sì, ha ragione Marco Drago a chiamare questo libro “enciclopedico” in postfazione, ma occorre tenere a mente che, come in tutte le cose, esistono molti modi diversi di essere enciclopedici.

Per esempio, evoco qui, ora, il signor Melville ed il suo sublime “Moby Dick”, romanzo assolutamente enciclopedico, con i suoi capitoli che diventano persino trattati di cetologia. Se la caratteristica enciclopedica avesse due poli, eccoli qui individuati. Mi scuso col signor Melville per averlo scomodato di fronte al mollusco che è “Ferrovie del Messico” e, a scanso di equivoci, dico che il polo positivo appartiene alla balena.

“Ferrovie del Messico”, in conclusione, è un libro che sfinisce. Griffi ha dimenticato completamente cosa sia il labor limae, cosa sia l’eleganza, ha dimenticato di togliere qualcosa prima di uscire di casa ed ha prodotto un’opera del tutto rozza. Non c’è diamante grezzo che brilla sotto queste scorie, il libro è un volgarissimo sasso, altresì detto sercio: sollevatelo per accorgervene, pesa più di mezzo chilo.