Fellini 100 anni dopo: tutto quello che forse non sapete sul grande regista

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Federico Fellini non è solo uno dei più grandi registi italiani (probabilmente il più grande) e uno dei più importanti di tutta la storia del cinema; la grandezza di Fellini sta nell’aver creato un mondo e un immaginario, come pochi altri hanno saputo fare. Oggi infatti utilizziamo l’aggettivo “felliniano” per descrivere un’atmosfera onirica o un personaggio fortemente caricaturato e grottesco.

Il mondo che Fellini ha creato, come un fantasioso demiurgo, ha a che fare con atmosfere circensi, con saltimbanchi e clown, con donne giunoniche e dive del cinema, registi, paparazzi, cardinali, monache… tutto ambientato in un clima sospeso e da sogno.

A 100 anni dalla nascita di questo genio visionario vogliamo celebrarlo raccontandovi alcune curiosità e aneddoti che forse non conoscete, buona lettura e buona visione!

Il talento disegnativo

Prima di entrare nel mondo del cinema, dapprima come sceneggiatore e poi come regista, Fellini ebbe altro tipo di velleità artistiche. Giunto a Roma durante la guerra non ancora ventenne, trovò lavoro come vignettista presso la rivista satirica il Marc’Aurelio. Il suo era quasi un automatismo, disegnava continuamente fin da bambino, scarabocchiava ghirigori, abbozzava dei personaggi, così per divertimento o per fissare su carta delle idee e delle suggestioni. Quando era ancora un liceale a Rimini, d’estate se ne andava in spiaggia elegantemente vestito offrendo ritratti e caricature a pastello ai bagnanti. Il giorno dell’esame di maturità si presentò con delle statuine caricaturali dei professori della commissione, che, invece di punirlo per lo schernimento, lo promossero a pieni voti. A proposito del disegno e della pittura disse: “Da sempre disegnatori, caricaturisti, pittori, anche quelli che disegnavano con i gessi le Madonne sui marciapiedi, hanno esercitato su di me un fascino, un’attrazione intimidita, appena inferiore a quella che mi suscitavano gli attori”..

Autoritratto di Fellini come burattinaio

Autoritratto di Fellini come burattinaio

L’amicizia con Sordi

Quello con Alberto Sordi non fu soltanto un sodalizio artistico importante e proficuo. Quella fra Sordi e Fellini fu prima di tutto una bellissima amicizia. Conosciutisi a Roma quando erano entrambi dei giovanotti squattrinati e affamati, i due legarono fin da subito e il giovane attore romano divenne una sorta di Cicerone per il riminese. I due passavano tantissimo tempo insieme, passeggiando nelle ore notturne e diurne per la città, alla ricerca di personaggi e di storie. Fu Sordi a spingere Fellini per ottenere l’impiego registico per “Lo sceicco bianco”, suo primo vero film dopo “Luci del varietà” co-diretto con Alberto Lattuada. Questa prima regia fu un disastro, eppure i due non si scoraggiarono e proseguirono la loro Strada, confezionando insieme dei film memorabili come “I vitelloni”.

Vi proponiamo una straordinaria clip in cui Fellini interpreta se stesso mentre Sordi finge di essere un tassista che ha una grande venerazione per il regista. Alcuni minuti esilaranti fra gag e riflessioni sul suo cinema.

La città ideale

Ci si potrebbe domandare quale sia stata la città più importante per Fellini, quella a cui era più legato. Certamente la natia Rimini dove trascorse infanzia e adolescenza fu importantissima e determinante per il regista che qui formò la sua "memoria inventata", e la omaggiò spesso nei suoi film, da Amarcord a La voce della luna. Roma fu invece la città della scoperta, della rivelazione, la città che lo accolse e permise a quel giovane scapestrato di provincia di entrare nel pantheon cinematografico. Roma sarà raccontata più volte, oltre che nel film omonimo anche nella Dolce vita e in altre pellicole. Dunque Rimini e Roma sono inscindibili dall'opera felliniana, ma c'è una città ancora più importante, una città fittizia, un luogo della mente: Cinecittà. È qui che Fellini si sentiva a casa, è qui che realizzò la maggior parte dei suoi film. Fellini infatti, anche quando aveva la città a portata di mano, preferì riprodurla in un teatro di posa. Così buona parte del Grande Raccordo Anulare di Roma fu realizzata in studio, allo stesso modo del mare di plastica di Amarcord. Cinecittà è la città ideale di Fellini dove egli poteva sentirsi come un dio ed avere il controllo su tutto e la capacità demiurgica di plasmare una finta realtà.

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Gli spot pubblicitari

Da regista Fellini non si è limitato ai film, ha girato anche diversi spot pubblicitari. Nel 1984 è l’industriale Pietro Barilla a convincerlo. La scena è ambientata in un ristorante di lusso. La musica sognante di Nino Rota suona in sottofondo e un cameriere si avvicina al tavolo per le ordinazioni. “Signora. Dottore. Vorrei suggerirvi consommé d'Orléans, soupe Colbert, gelée de bouillon”. La donna al tavolo si girà, lo guarda, sorride e dice: “Rigatoni”.

Il dietro le quinte delle riprese vale assolutamente la visione. ”Vieni avanti quasi in punta di piedi”, si sente indicare Fellini a uno dei camerieri, “più leggero, ma più fluttuante, ma più rapido”. Poi corregge il tono usato in una battuta. “E no, esageri adesso. Non così, sembri un pazzo”. Ironicamente poi dice alla troupe. “Io fossi in Barilla venderei lo stabilimento”.

Un anno dopo Barilla è il turno di Campari, con lo spot “Che bel paesaggio”. Una ragazza annoiata continua a cambiare con un telecomando quel che vede fuori dal finestrino del treno. Quasi fosse un salotto televisivo, il viaggiatore seduto di fronte decide di scegliere come canale Piazza dei Miracoli di Pisa. E davanti al Battistero appare la celeberrima bottiglia rossa, come più di trent’anni prima il bicchiere di Vodka Smirnoff si stagliava sulla piramide di Cheope a Giza nell’immagine di Bert Stern. Un capolavoro.

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Gli ultimi tre spot sono per la Banca di Roma, l’ultimo dei quali pochi mesi prima di morire. Protagonista è Paolo Villaggio. Sogna eventi terribili: un leone che piange in cantina, una galleria che comincia a crollare mentre la sta attraversando in auto, un treno che gli arriva addosso durante un picnic. Assieme a Villaggio, nella terza reclame c’è una giovane Anna Falchi che chiama il suo interlocutore con lo stesso tono di voce che aveva Anita Ekberg quando diceva a Marcello di avvicinarsi. Solo che in questo caso non dice “come here” ma “sali qui sopra. Avanti!”, però l’amante è legato ai binari del treno.

Le critiche

Il giorno dopo la prima proiezione de La Dolce vita – il 5 febbraio 1960 al Capitol di Milano – il film finì sui giornali. Non nelle pagine di spettacolo, come ci si potrebbe aspettare, ma in quelle di cronaca. «Un tale mi ha sputato sul collo — raccontò l’indomani Fellini al Giorno — e quando mi sono voltato mi ha gridato in faccia: “Si vergogni! Si vergogni!”».

Le critiche arrivarono anche dalla stampa. «Che cos’è dunque questa Dolce Vita? Sarebbe facile dire, e dicendo il vero, che è una menzogna e un insulto e, per usare il linguaggio del film stesso, una “schifezza”», l’editoriale del Secolo d’Italia del 7 febbraio. Il giorno dopo rincara la dose l’Osservatore Romano, con un articolo non firmato. “Il male, il delitto, il vizio ostentato sugli schermi, sviscerato nella sua psicologia, incarnato nei suoi protagonisti, splendente in bellezze artefatte e procaci, è incentivo al male, al delitto, al vizio: ne è propaganda”.

Ma c’era anche chi lo apprezzava, come il giornalista Indro Montanelli. Che dopo aver visto La dolce vita scrisse: «Non siamo più nel cinematografo, qui. Siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società».

La rivalità con Visconti

Due dei più grandi registi italiani non andavano d’accordo. “Si odiavano. Erano completamente diversi”, ha confermato Claudia Cardinale in una recente intervista, “Luchino era un perfezionista, sul set non si poteva dire una parola fuori o fare un gesto non concordato, non permetteva nemmeno al produttore di venirci. Per Federico se non c'era rumore non si poteva nemmeno lavorare, era anarchico, si girava senza copione”.

Non solo uno scontro a parole. “Ai tempi la guerra fra Fellini e Visconti fu una cosa seria, con cazzottature e interventi della polizia”, l’opinione del critico cinematografico Tullio Kezich in un’intervista al Corriere della Sera. “Fu uno sfogo di antipatia provvisoria e un gran divertimento per i gazzettieri che ci intingevano il pane. Visconti criticava i film di Fellini e Fellini evitava di vedere i film di Visconti; e anche quelli di quasi tutti gli altri colleghi, a eccezione (ma non sempre) di Kurosawa e Bergman”.

Chi li conosceva bene entrambi era l’attore Marcello Mastroianni. Con loro girò diversi film e si frequentò anche fuori dal set. Alla domanda sulla differenza tra i due registi nessuno è stato più chiaro di lui. “Visconti è il professore che tutti sognano di avere, mentre Fellini è l’amico ideale”.

Trasformazione “felliniana”

Fellini sapeva distinguersi anche durante le riprese. “Dovevate vederlo sul set, uno spettacolo!”, descrive nell’intervista a Repubblica Bruno Zanin, l'attore che diede il volto a Titta nel film Amarcord. “Urlava alla troupe, dava ordini come un imperatore, oppure era istrionico, dolce, protettivo”. Altra caratteristica del regista di Rimini era quella di saper rendere attori persone insospettabili. “Mentre giravamo Amarcord a Cinecittà”, prosegue Zanin, “vide un uomo che si era intrufolato per raccattare gli avanzi dei cestini da pranzo della troupe. Era Vincenzo Caldarola, un senzatetto che viveva di elemosina dalle parti di piazza del Popolo. Lo fece diventare l'emiro del Grand Hotel. Una trasformazione folle, anzi felliniana come si dice oggi”.

Amici, bambini, persone che aveva conosciuto per caso in strada. Fellini portava in scena chiunque. “Sul set di Amarcord c’era sempre una signora anziana”, ha ricordato l’attrice Magali Noel in un’intervista, “Federico la faceva sedere sul set con grandi onori pur non facendo nulla”. Magali gli chiese chi fosse, e scoprì che si trattava di una diva del cinema muto. Ottantenne, non lavorava più, e per questo la coinvolgeva. Per Fellini il cinema era di tutti.

Claudio Sagliocco e Alessandro Rosi