Dumplings: ravioli infernali in un horror made in Hong Kong

Chi pensa che il cibo sia innocente?

Sicuramente Li Qui, la protagonista del film in questione. Questa, ex attrice in piena crisi di mezza età, per riconquistare la sua giovinezza (e un marito infedele) si fida della ricetta “miracolosa” di una santona per tornare ad essere protagonista nella sua vita come lo è per noi nella pellicola. Tuttavia, l’ingrediente segreto di questa ricetta, oltre che rivelarsi raccapricciante, produrrà conseguenze nefaste…

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Dumplings è un film horror del regista hongkonghese Fruit Chan, contenuto nel progetto cinematografico Three… extremes (2004). Il trittico vede il regista precedentemente citato affiancato dai nomi più celebri Takashi Miike e Park Chan-Wook. I due registi propongono due horror manierati: il primo offre un’opera lisergica e onirica che rievoca i fantasmi di una certa letteratura europea di marca mitteleuropea; il secondo un delirio cervellotico e adrenalinico che vive di tensione ed eleganza registica. Il film di Fruit Chan, invece, si mostra sin dal principio molto diverso. Più legato tematicamente al genere del grottesco e visivamente a toni “diurni”, rispetto ai due fratelli (o sorelle) cinematografici, risulta anche più… casareccio. Precisamente come i ravioli artigianali fatti con feti umani di Zia Mei, miracolosi dal principio, ma mortiferi in ultima analisi. La vecchia zietta, infatti, non solo si prende gioco della povera protagonista - nel pieno di una crisi esistenziale, sfruttando le sue debolezze – ma alla fine, appropriandosi della giovinezza, gli ruba anche il marito.

La storia di Dumplings – che, nella sua semplicità, sembra richiamare certe favole popolari – ha molto di ingenuo e di colorato. E forse per questo il film risulta in analisi più debole dei titoli di Park Chan-Wook e Takashi Miike, che sono maestosi, algidi. Tuttavia, in questo breve articolo in cui si discute del rapporto cinema-cibo è interessante notare come questo elemento culinario costituisce una parte tutt’altro che accessoria nella economia registica di Dumplings. Le leggende legate al cibo, in Italia come nel mondo, sono numerose. Favolistiche o inquietanti, queste trasformano il cibo in una metafora, una figura retorica che nelle varie narrazioni – occidentali, orientali - dicono molto dei nostri desideri come delle nostre paure e ossessioni. Un cibo mostruoso, in questo caso, sembra dapprima avere conseguenze miracolose, per poi rivelarsi una vera truffa. Che il film sia una favola morale? Una storia di vanitas o un trattato sulla saggezza popolare? In una prospettiva più ampia, possiamo pensare ai ravioli di Zia Mei come emblema di un certo modo che abbiamo di divinizzare o demonizzare il cibo, la sua estetica, l’atto del mangiare come quello di registrarlo e spettacolarizzarlo sui social. In fondo, la nostra protagonista non voleva qualcosa di più che consumare un semplice pasto? Il cibo è legato al nostro rapporto con il corpo, come anche a quello con il mondo, e dice per questo molto di noi.

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Allora in questi tempi in cui un certo virus di origine cinese (apparentemente causato dall’usanza di mangiare uno strano piatto tradizionale a base di pipistrello) paralizza il mondo, possiamo pensare che dietro l’evidente razzismo che sta alla base della recente fobia per la cucina orientale (come se anche noi italiani non mangiassimo cose strane! Un famoso programma culinario di Chef Rubio basterebbe a dimostrare quante stranezze e prodigi si nascondono nella tradizione italiana) sia non solo stupido, ma anche folkloristico. Forse si potrebbe pensare che le leggende e le fissazioni che ci abitano, da qualunque parte del mondo veniamo, e che modellano il nostro rapporto col cibo, fanno parte di una forma mentis che è difficile sradicare, fatta di tradizioni e tendenze recenti, di psicologia e cultura. Tuttavia, se una normalità non esiste, si può almeno cogliere il lato magico di una ricetta (sia essa autoctona o esotica) osservando con lucidità le nostre passioni e i nostri gusti, riconoscendo quanta stranezza ci sia in noi come negli altri, e sorridendo di tutto ciò. Prendendo il meglio insomma. E magari esorcizzare questi timori con un film che mostra l’esasperazione di questo esotismo? Perché no, mi sono detto. Tempismo perfetto.