Cervara di Roma: un nido tra le nubi

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Può un luogo distante appena settanta chilometri da Roma considerarsi remoto? La risposta sembrerebbe ovvia: no. Eppure, se prendessimo gli ispirati versi di Rafael Alberti, il poeta andaluso in esilio in Italia che elesse la valle del fiume Aniene a sua seconda patria spirituale, in un suo componimento leggeremmo queste parole: «Cervara di Roma. Vive sola scolpita in cima a una montagna di pietra. È una scultura nel cielo, che al cielo volerebbe se l’aria la sostenesse».

Viene in mente Il castello dei Pirenei di Renè Magritte, il celebre dipinto del surrealista belga in cui un enorme masso con in cima una fortezza fluttua magico e solitario sulla superficie del mare. A differenza del castello magrittiano, tuttavia, Cervara non si è mai innalzata in volo, anzi, è sempre rimasta aggrappata saldamente alle sue montagne, curandosi bene di non scivolare via.

Siamo sul versante settentrionale della valle scavata dall’Aniene, ancora dentro al territorio della provincia di Roma ma non lontano dal confine con l’Abruzzo. Il nido di Cervara è uno spettacolare sperone calcareo che si innalza improvvisamente sui boscosi pendii dei Simbruini.

Sono questi i monti che hanno visto la nascita del monachesimo occidentale. Per primo, San Benedetto da Norcia sul finire del V secolo ne esplorò i silenziosi boschi e le inospitali grotte in cerca di riparo. Sui Simbruini, i monti più piovosi dell’Appennino centrale (il loro nome viene da “sub imbribus”), l’acqua si infila ovunque, nelle cavità, nelle doline, negli inghiottitoi, scava un dedalo sotterraneo di gallerie tra le rocce carisiche per poi affiorare nelle numerose risorgive che costellano il territorio del parco. Tale abbondanza idrica permetteva agli eremiti e alle comunità monastiche che sceglievano queste montagne di vivere in totale autonomia la loro parca esistenza di preghiera.

Cervara di Roma, borgo eremita, si uniforma ancora oggi a questa vocazione secolare del territorio. Per chi viene dalla Capitale, il viaggio è piuttosto breve: dopo un tratto di A24, si esce a Vicovaro e ci si immette nella media valle dell’Aniene sulla Tiburtina Valeria. Arrivati ad Arsoli, non bisogna lasciarsi sfuggire le indicazioni: le case si rarefanno, la strada comincia a salire tra i boschi, un cartello informa che si è passato il confine del Parco Regionale dei Simbruini. Dopo una manciata di chilometri, tra le due file di chiome degli alberi ai bordi della provinciale si infila la visione di un gruppo di case rampicanti sulla roccia; è Cervara che fa capolino.

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Il primo approccio al paese è già un’indicazione dell’eccezionalità del luogo. Lasciata infatti la macchina in piazza Giovanni XXIII, si è costretti a salire fino al centro storico utilizzando una scala molto ripida che attraversa una macchia verde incuneata tra lo sperone roccioso e l’abitato.

Si tratta della Scalinata degli Artisti, una vera e propria opera d’arte ambientale progettata nel 1984 da un professore di scultura dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, Vincenzo Bianchi, che vi lavorò assieme ai suoi allievi. Animali, sagome, volti e figure antropomorfe furono scolpite dal gruppo di artisti sulla viva roccia calcarea, a plasmare un universo di forme capace di dare effettiva realizzazione alle parole di Rafael Alberti, trasformando Cervara in una vera “scultura nel cielo”.

È l’esempio virtuoso di un borgo che ha saputo lavorare sulla propria memoria storica e artistica, rinnovandola nel tempo e incidendone i segni nel suo stesso tessuto urbanistico e materiale. Le opere d’arte più recenti sono d’altronde un omaggio a una tradizione molto più lunga che ha visto artisti, in particolare pittori, spingersi a Cervara fin dall’Ottocento alla ricerca di un sapore leggermente diverso da quello che potevano trovare negli altri luoghi pittoreschi della trafficatissima Campagna Romana: quel pizzico di sublime derivato dalla posizione a strapiombo sulla valle montana, tra i silenzi dei boschi e delle brume.

Ne rimase affascinato, per esempio, Ernest Hebert, pittore di Grenoble che soggiornò a più riprese a Roma nel corso della sua vita e che negli anni ’50 del XIX secolo si trasferì per alcuni mesi a Cervara; camminando tra gli strettissimi vicoli ornati di piante e fiori e le ripide scalinate che si snodano tra le case del paese, ci si imbatte in un passaggio coperto noto come “L’arco di Hebert”, un luogo scelto dal pittore per ambientare uno dei suoi dipinti più famosi, “Les Cervarolles” (“Donne di Cervara”), presentato nel 1859 al Salon di Parigi e oggi conservato al Musèe d’Orsay nella capitale francese.

Se le donne nel tipico costume laziale, naturalmente, non si incontrano più per le vie di Cervara se non in occasione di qualche festa tradizionale, il borgo suggerisce ancora quell’impressione di sorgere naturalmente dalla roccia viva, addomesticata dalla sapienza architettonica umana, restituita in modo così vivido da Hebert nello sfondo del suo dipinto.

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Una passeggiata per il paese non può non seguire un andamento ascensionale e trovare il suo culmine nel punto più alto del borgo, la Rocca medievale, sorta nell’XI secolo come centro amministrativo del feudo di Cervara, posto sotto il controllo politico dell’abate commendatario del potentissimo Monastero di San Benedetto a Subiaco, distante solo qualche chilometro.

Sebbene sia oggi ridotta a rovina, risulta non meno capace di incutere un senso di imponenza a chi da lontano ne scorge le fondamenta conficcate nella roccia. Non è un caso che nel corso dei secoli essa sia diventata mira e poi rifugio di diverse personalità ribelli, pronti a piegare la sua forza difensiva contro l’autorità costituita. Uno di questi fu Pelagio, un monaco benedettino, rampollo di un’importante famiglia della zona che nel 1273, in aperta ribellione all’abate commendatario, entrò a Cervara e si impossessò della Rocca, riuscendo a tenerla pervicacemente per tre anni, finchè non venne sconfitto dalle truppe inviate da Roma dal papa.

L’ultimo in ordine di tempo ad attaccare la Rocca con l’obiettivo di conquistarla fu Marco Sciarra, carismatico brigante che nel Cinquecento scorrazzava per le terre dell’odierno Lazio. Dopo le distruzioni da lui apportate, la Rocca non venne mai davvero ripristinata e ancora oggi appare come un recinto di basse mura sormontate, nel punto più alto, da una statua della Vergine.

Anche se la storia non è la vostra passione, vale comunque la pena faticare un po’ per arrivare fin quassù e godere dell’eccezionale panorama che si spalanca. Le irregolari e ondulate cortine dei Monti Ruffi e Prenestini si stendono verso ovest al di là della valle dell’Aniene, impendendo allo sguardo di abbracciare la pianura di Roma, che immediatamente retrostante corre fino al Tirreno (salendo sulle cime dei Simbruini non è infrequente, nelle giornate terse, riuscire a vedere il mare).

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Eppure, visitare Cervara in una giornata di cielo coperto può essere un’esperienza non meno affascinante. A 1053 metri di altitudine, può in effetti capitare che le nuvole siano più basse del paese e riempiano la valle col loro soffice candore; oppure, che esse corrano all’esatta altezza del borgo, attraversandolo, sfumando i contorni delle case e isolandole, ancor più del solito, dal paesaggio circostante.

Con un percorso ad anello, dalla Rocca si riscende passando per la chiesa collocata sul “ripiano” roccioso immediatamente sottostante, la Madonna Santissima della Visitazione, le cui porte sono purtroppo raramente aperte; sul suo altare maggiore, sarebbe possibile ammirare un’interessante tela del pittore sabino del Seicento Vincenzo Manenti. Nei locali sotterranei della chiesa, è poi allestito un piccolo museo dedicato alla vita montana, con riferimenti alla Cervara dei secoli passati e alla caratteristica e virtuosa coesistenza, in essa, di pastori e pittori.

Quando si riprende la macchina e si lascia Cervara, scendendo nella valle verso un mondo che progressivamente riacquista sembianze più familiari, viene quasi istintivo girarsi per tributare un ultimo sguardo a questo luogo sospeso. Quando le nuvole l’avvolgeranno ancora, per poi diradarsi sciolte dalla luce del sole, Cervara sarà ancora lì, ancorata al suo sperone? O avrà finalmente preso il volo, verso quel mondo celeste cui da sempre tende e che forse, in fondo, è la sua vera, autentica dimensione? Non resta che tornare a controllare, ancora e ancora!

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