Ballate per uomini e bestie, per un'iconografia caposseliana

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“Ballate per uomini e bestie” è il miglior disco che sia stato prodotto nel panorama musicale italiano nel 2019.

A dirlo non è chi scrive, ma il Premio Tenco, il riconoscimento più prestigioso della musica nostrana che ha assegnato all’undicesimo lavoro in studio di Capossela la Targa omonima come miglior album in assoluto.

Vinicio Capossela è universalmente riconosciuto come uno dei cantautori più importanti dell’ultimo trentennio. Polistrumentista e grande paroliere, il cantore irpino (sebbene nativo di Hannover) ha messo in questo disco tutta la sua sagacia ed ironia, le sue conoscenze e il suo estro, scrivendo un canzoniere di ballate attualissime, fra il sacro e il profano. Capossela è attualmente in tour per i teatri di tutta Italia, e l’8 dicembre passerà per Roma, dove si esibirà all’Auditorium Parco della Musica.

È proprio dal vivo che il cantautore rende al meglio, lasciandosi andare in concerti sorprendenti che diventano spesso veri e propri spettacoli visivi, che possono durare anche ore (come quello conclusivo dello Sponz Fest della scorsa estate, serata delirante, adrenalinica ed estenuante, roba da far invidia al miglior Bruce Springsteen!). L’aspetto teatrale e visivo è infatti molto importante per Vinicio, che ha realizzato anche un film, “Il paese dei coppoloni”, tratto dal suo omonimo romanzo. In occasione del suo tour si è deciso di fare qui un’operazione un po' particolare, ovvero di creare una sorta di iconografia “caposseliana”, di associare cioè un’immagine (un’opera d’arte) ad alcuni brani del disco, per ri-creare un immaginario che si associ bene alla musica.

 

Uro

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Pittura rupestre nelle grotte di Lascaux raffigurante un uro.

L’inizio è remoto e ci riporta in tempi ancestrali, quando l’uomo viveva in ripari cavernosi, si vestiva di pelli e cacciava animali. Quell’essere, quella creatura umana, divenne antropos solo quando “sollevò lo sguardo e dipinse uro”. È lui il protagonista della prima canzone del disco, un animale ormai estinto che ha un che di mistico, bovino mansueto ma con le corna del toro vigoroso. La mente si proietta immediatamente nelle grotte di Lascaux, evocate dallo stesso Capossela, in quella “Cappella Sistina dell’umanità”. Suonano gli archi, violoncello, viola e violino regalano suoni acuti e trasportanti, mentre i tamburi danno alla melodia un tocco quasi atavico. Qui, nelle grotte di Lascaux, si compì la prima frattura fra uomini e bestie, grazie ad un gesto artistico, inutile e quindi divino.

 

Danza macabra

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Pieter Bruegel il Vecchio, Il trionfo della morte, 1562 circa, Madrid, Museo del Prado.

Quella della danza macabra è un’iconografia tardomedievale, nella quale viene rappresentato un ballo fra i vivi e i morti, fra gli uomini e gli scheletri. Fra i moltissimi esempi che si potrebbero prendere in prestito, da Palermo a Clusone, si è scelto qui un quadro fra i più grotteschi e al contempo divertenti, Il trionfo della morte di Pieter Bruegel il Vecchio conservato al Museo del Prado di Madrid. L’esercito di scheletri arriva e crea scompiglio, caos e distruzione; le persone fuggono in ogni dove, ma alla morte non c’è scampo e “chi tocca tocca muore”. Più che una danza quella dipinta dal fiammingo è una lotta, una battaglia persa ab origine, perché nessuno può scampare alla morte trionfante, come ci ricorda la canzone che recita anche in latino il motto “Hodie mihi cras tibi” (oggi a me domani a te). Nel dipinto si respira un’aria pestilente, nauseabonda, un odore di morte, ma non possiamo fare a meno di ballare: “ad mortem festinamus”.

 

Le nuove tentazioni di Sant’Antonio

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Joos van Craesbeeck, Le tentazioni di sant’Antonio, 1650 circa, Staatliche Kunsthalle Karlsruhe.

Si tratta di uno dei brani più interessanti del disco, per musica e testo. Non potevamo allora scegliere un’immagine che non fosse altrettanto bizzarra ed evocativa. Il dipinto in questione è di un altro fiammingo (questi pittori erano noti per la loro fantasia visionaria, si pensi su tutti ai deliri visivi di Bosch), si tratta di Joos van Craesbeeck, pittore e fornaio vissuto nel Seicento. Il quadro è come un orribile incubo: il santo abate, che con gesto prometeico era sceso nell’inferno per rubare il fuoco e donarlo agli uomini come scintilla di ragione, è circondato da creature infernali e mostruose che neanche il miglior Lynch riuscirebbe a partorire. Un’enorme testa, autoritratto dell’artista, è arenata sulla spiaggia, spalanca la bocca in un urlo disperato mentre una moltitudine di mostriciattoli si infila nel suo capo. La complessità e la singolarità del brano è rispecchiata dall’uso degli strumenti musicali: alle consuete chitarre, elettriche e acustiche, si aggiunge la zampogna, la batteria, le tastiere e i flauti, mentre il coro del ritornello risuona come un mantra… “ohh ohhh ohhhh di fuoco arderò”.

Il bestiario di questo moderno trovatore vi attende a teatro, dove non mancheranno di certo sorprese e spettacolo, non vi resta che affrettarvi a prenotare gli ultimi posti…