Arbitro fuori campo

Quando ero piccolo avevo la sensazione di essere perennemente osservato e tale sensazione derivava probabilmente dal fatto che ero effettivamente costantemente osservato. Se non era proprio costantemente comunque accadeva molto di frequente.

Quando ero bambino facevo sport, mi allenavo quasi tutti i pomeriggi in una palestra piccola e fatiscente, che si trovava proprio ai piedi della parrocchia del quartiere. Finché frequentai le elementari mia madre venne tutti i giorni per accompagnarmi nel breve tragitto dalla scuola agli allenamenti; quando fui appena un po’ più grande e raggiunsi le medie, lei smise di punto di venire a prendermi ed io iniziai ad andare a piedi per conto mio. Solo raramente, quando facevamo le partite nel fine settimana, lei decideva di svegliarsi presto la mattina per portarmi con la macchina, anche se poi, siccome le davano fastidio gli schiamazzi e la puzza di sudore, si fermava in doppia fila davanti alla parrocchia e molto difficilmente entrava. “In bocca al lupo”, mi gridava sorridente dal finestrino, poi faceva marcia indietro nella piazzola piena di persone e, a fatica, si smarcava tra la folla eterogenea mista di sportivi e credenti. Nel pomeriggio, quando tornavo, mi chiedeva come fosse andata la partita ed io invariabilmente le rispondevo che era andata bene. Non era vero: a volte andava bene, altre andava male, ma non ero di certo io a deciderlo.

Come dicevo precedentemente, infatti, quando ero più piccolo venivo assiduamente osservato da uno strano signore, che a ripensarci ancora oggi mi vengono i brividi. Questo signore si manifestava senza che mai nessuno lo vedesse arrivare o andarsene via. Per quanto fosse un individuo singolarmente eccentrico, impeccabilmente vestito in un completo nero ed un cappello vecchio stile dello stesso colore, nessuno pareva notarlo eccetto me. E d’altra parte lui non sembrava interessato a nient’altro che non fosse la mia prestazione. Non ricordo esattamente quando iniziai a distinguerlo tra la folla dei genitori, ricordo solo che un certo giorno della mia vita, probabilmente durante una partita, mi accorsi che veniva lì per me e che chiaramente aveva certe aspettative che non volevo disattendere. Ho già spiegato che per quanta attenzione ci mettessi, non mi capitava mai di vederlo nell’atto di entrare o di scegliere un posto per sedersi. Accadeva semplicemente che, ad un certo punto della gara, io mi girassi verso la tribuna e lo individuassi vestito di nero tra i genitori dei miei compagni, intento a osservare ogni mia singola mossa.

Generalmente, quando ero nelle mie giornate migliori e facevo delle buone prestazioni, il signore batteva le mani insieme alla folla ed annuiva silenziosamente.  Se accadeva, ad esempio, che portassi avanti un’azione con successo, mi giravo a rintracciare il suo sguardo tra le file degli spettatori e ricevevo composti segni di approvazione. Quando invece mancavo di energia o di spirito d’iniziativa e il mio morale era a terra, per un motivo o per un altro, il mio sguardo cercava disperatamente di evitare le tribune. Eppure una qualche forza magnetica mi portava tutte le volte a rivolgere occhiate fugaci in direzione dello strano figuro, che se ne stava in disparte con un’espressione corrucciata scuotendo la testa. Le mie forze erano a quel punto totalmente inibite e mi capitava di girare per il campo come qualcuno che, sbattuta forte la testa sottacqua, stenti a ritrovare il senso dell’orientamento. Allora mi sentivo completamente mortificato, per non dire anche colpevole, ed ero triste da sembrare un cane bastonato. Ma il figuro non era mai mosso a compassione nei miei confronti: si limitava a commentare i miei successi ed insuccessi con piccoli gesti, come una sorta di misurazione empirica incontrovertibile. Era come uno strano tipo di arbitro dell’esistenza che piuttosto che nel perimetro del campo, operava entro quello più vasto della mia vita. A volte, preso dalla rabbia, o più semplicemente dalla curiosità, cercavo astutamente di avvicinarlo, tendendogli degli agguati a inizio o a fine partita. Lui però non si fece mai accostare da me, ma scomparve sempre un attimo prima che mi fosse possibile presentarmi e chiedere  una, credo doverosa, spiegazione.

Risulterà ormai piuttosto chiaro come questo signore non fosse altro che una mia paranoia, il riflesso di una mia qualche paura o angoscia. Tuttavia io lo incontravo così, materiale, anche in contesti che erano altri da quello sportivo. Mi capitava ad esempio di vederlo nelle file dei genitori in attesa dei colloqui con i professori, oppure quando uscivo con qualche ragazza, alle volte mi giravo e mi sembrava di intravederlo tra i passanti o tra le persone nella gelateria.  In diverse occasioni l’ho visto quando stavo al parco con gli amici. Insomma mi pareva di scorgerlo un po’ dappertutto ed è per questo che dico di essermi sentito costantemente osservato.

Arrivò poi il momento in cui lo sport non significò più nulla nella mia vita e così molte altre cose. Smisi progressivamente di allenarmi, di conseguenza smisi anche di vederlo vestito di nero alle mie partite. Se qualche altra volta lo incontrai, in qualche fila o mescolato tra i passanti, finsi di non riconoscerlo. Così piano piano, quasi senza rendermene conto, riuscii a liberarmi di quella strana e scura ombra, ancorata alla mia persona, per non incrociarla mai più.

In realtà, a voler essere del tutto sinceri, qualche altra volta lo vidi, ancora oggi mi capita di notarlo, nella sua divisa immancabilmente nera. Certi giorni, quando sono particolarmente nervoso, ad esempio a lavoro, o quando mi trovo imbottigliato nel traffico da grande città, mi capita di girare distrattamente lo sguardo e vedere uno strano signore in abito nero, che mi guarda, mi riconosce e scuote la testa.