Antigrazioso laziale: Colleferro e la sua anima industriale

Diciamocelo chiaramente: in questo periodo, con queste limitazioni agli spostamenti, curare questi articoli per la sezione “Luoghi” è diventata un po’ una pena. Ora, io potrei tranquillamente fare finta di niente, come del resto ho fatto fino a oggi, e raccontarvi dell’ennesimo pittoresco borgo laziale dove sarebbe incantevole andare a fare una passeggiata in un’assolata domenica di primavera; ma la verità è che ancora per un pezzo saremo tutti confinati entro il Grande Raccordo Anulare e, ahimè, dobbiamo farcene una ragione. Perciò quale migliore occasione per parlare di luoghi un po’ meno convenzionali e, ammettiamolo, magari pure un po’ più bruttarelli?

Lanciamoci dunque in questa esplorazione al di là dell’abusato concetto di locus amoenus e visitiamo un luogo dove tendenzialmente difficilmente ci si fermerebbe, se non spinti da necessità o impegni di lavoro: Colleferro, cittadina di ventimila abitanti nella valle del fiume Sacco, ai piedi del massiccio dei Monti Lepini, a metà strada tra Roma e Frosinone, là dove il territorio della provincia della Capitale comincia a far assaggiare quei caratteri un po’ rudi e asprigni più caratteristici della Ciociaria. Se di recente avete sentito parlare di Colleferro, probabilmente ciò sarà successo in occasione del terribile omicidio di Willy Monteiro Duarte, per il quale è tristemente ascesa agli onori della cronaca nera nazionale, oppure in relazione al centro logistico di Amazon aperto sul finire dello scorso anno, sesto hub inaugurato dal colosso dell’online in Italia e secondo nel Lazio dopo quello di Passo Corese. Potreste inoltre aver sentito nominare il fiume Sacco nelle classifiche dei corsi d’acqua più inquinati di Europa, un dato (anche questo) non particolarmente gioioso ma intrinsecamente legato alla storia dello sviluppo industriale della città di Colleferro, ovvero ciò che ci interessa raccontare. Ma cerchiamo di spogliarci di qualsiasi pregiudizio e cominciamo la nostra visita.

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Colleferro è cittadina di fondazione molto giovane. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, il suo territorio doveva essere coperto per lo più da boschi e campi coltivati. Sebbene prive di insediamenti di una certa importanza, queste terre a vocazione agricola andavano comunque governate e difese. Ecco perché in età medievale sorsero, grazie soprattutto alle finanze della famiglia Conti, originaria della vicina Segni, almeno due fortificazioni con funzione di presidi sul medio corso del Sacco; il castello di Piombinara e la Rocca di Colleferro. Entrambi ridotti allo stato di rudere, costituiscono oggi le presenze architettoniche più antiche del territorio del comune; la Rocca, un tempo appartenente alle nobili famiglie proprietarie terriere della zona (i Conti, poi i Salviati, infine i Doria Pamphili), accoglie ancora tra le sue rovine, che conservano la caratteristica bicromia costitutiva di tufo e travertino, alcune abitazioni abusive, presentandosi in una facies davvero singolare che riporta alla mente certe foto di Roma di inizio Novecento, quando l’incertezza delle leggi sulla tutela dei monumenti permetteva la germinazione, tra i grandi ruderi dell’evo antico, di botteghe, capanne, magazzini e quant’altro.

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I castelli erano dunque stati eretti per controllare la via fluviale del Sacco, nonchè le importanti arterie stradali che da Roma correvano verso la Campania, la Casilina su tutte; tuttavia, la storia della Colleferro moderna inizia con un altro tipo di linea di comunicazione, la via ferrata. Nel 1862 infatti venne inaugurata la stazione di Segni (oggi Colleferro-Segni-Paliano), posta sul tracciato dell’importante ferrovia Roma-Cassino-Napoli. Essa divenne un fondamentale polo di aggregazione per i traffici e le attività umane della zona, fino a che nel 1898, proprio nelle sue immediate vicinanze, non venne aperto lo zuccherificio Valsacco, grande struttura manifatturiera per la lavorazione della barbabietola da zucchero. Attorno all’imponente stabilimento e alla stazione dei treni sorsero presto le abitazioni degli operai, imperniate sulla graziosa chiesa neo-romanica di San Gioacchino, un piccolo tempietto a pianta ottagonale la cui costruzione fu favorita dalla famiglia Doria Pamphili e finanziata persino dall’allora pontefice Leone XIII, nativo della vicina Carpineto. Nacque così il primo nucleo abitativo di Colleferro, l’odierna frazione di Colleferro Scalo.

Una nuova strada per lo sviluppo del territorio era ormai stata tracciata. Nonostante la chiusura dello zuccherificio Valsacco nel 1909, solo tre anni più tardi un nuovo magnate dell’industria si presentò a Colleferro, con un capitale immenso e dei progetti molto chiari. Si trattava di Leopoldo Parodi Delfino. Discendente da una famiglia dell’alta borghesia imprenditoriale del nord, Parodi Delfino incarnava alla perfezione la figura dell’homo novus dell’industria italiana di inizio Novecento, un manager all’americana, membro di una famiglia ricca e socialmente riconosciuta, affacciatosi al settore secondario con alle spalle una sostanziosa e sfaccettata preparazione culturale. Nel 1912, dopo aver perfezionato un sodalizio economico con Giovanni Bombrini, egli aprì a Colleferro la Bombrini Parodi Delfino (BPD), destinata a diventare un colosso nel settore della chimica, grazie soprattutto alla produzione di esplosivi e di polvere da sparo, particolarmente remunerativa se solo si pensa agli eventi bellici planetari che di lì a poco sarebbero scoppiati.

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Parodi Delfino non lasciò nulla al caso; attorno allo stabilimento produttivo, fece progettare dall’ingegnere Michele Oddini quello che doveva essere il primo villaggio operaio in Italia completamente autosufficiente commissionato da un privato cittadino, senza alcun tipo di interessamento o immistione da parte dello Stato. Per l’industriale, gli operai non dovevano evidentemente essere concepiti solo come mera forza lavoro ai fini della produzione e del profitto, ma come membri a tutto tondo dell’azienda, esseri umani da difendere e sostenere assicurando loro un contesto sano e dignitoso in cui curare tutti gli aspetti della vita una volta terminata la giornata lavorativa. Nel triangolo oggi ritagliato tra la via degli Esplosivi, la via Latina e il Corso Garibaldi, sorse dunque il primo villaggio operaio di Colleferro, caratterizzato da soluzioni abitative di due tipi: semplici caseggiati in linea a due piani con servizi condivisi per gli operai, e appartamenti con bagno autonomo in palazzine più ricche e curate per i dirigenti. Al netto della visione umanistica di fondo, le gerarchie economiche e professionali dovevano infatti trovare un qualche rispecchiamento anche al di fuori dalla fabbrica. Scuole, farmacia, poste, refettorio, spaccio aziendale e circoli dopolavoro integravano le case del villaggio, per offrire tutti i servizi necessari ma anche spazi per l’organizzazione del tempo libero ai dipendenti.

Con l’arrivo degli anni ’30 e lo svilupparsi delle mire militariste del governo fascista, la BPD fu costretta a incrementare la produzione. All’espansione degli stabilimenti produttivi, doveva far seguito necessariamente anche l’espansione del villaggio operaio, che sarebbe così diventato a tutti gli effetti una città. Parodi Delfino decise di affidarsi questa volta a un giovane rampante dell’ingegneria edile italiana, il romano Riccardo Morandi, appena trentaduenne all’epoca ma destinato a diventare una figura assolutamente torreggiante nel panorama dell’edilizia italiana del Novecento, soprattutto per i contributi nella progettazione di strutture e infrastrutture in cemento armato (celebre, per tristi motivi, il suo viadotto autostradale sul torrente Polcevera a Genova). A Colleferro, Morandi ebbe l’occasione di mostrare tutta la sua abilità e di farsi anche urbanista, progettando nella sua interezza l’espansione del villaggio operaio oltre la direttrice del corso Garibaldi. L’addizione morandiana fu imperniata sul piccolo quadrato di Piazza Italia, luogo di aggregazione su cui prospettano i due edifici principali per l’amministrazione e la vita sociale della città, la Casa del Comune e la ex Casa del Fascio (oggi caserma dei Carabinieri), entrambi in stile razionalista così come la basilica di Santa Barbara, realizzata tra ’36 e ’37, una vera ode al calcestruzzo e alle sue possibilità costruttive ed estetiche. Morandi, con la volontà di radicare il nuovo edificio sacro nel tessuto di memorie architettoniche del territorio, prese ispirazione dalle tre grandi arcate aperte su uno dei lati del rudere della Rocca vecchia di Colleferro, ormai relegata alla periferia occidentale dell’abitato, riportandole nella sobria e imponente facciata della chiesa. Tutt’intorno sorsero nuove infrastrutture come scuole, ospedali, campi sportivi, un cinema-teatro, ma soprattutto varie tipologie di case per i dipendenti, a schiera, in linea, a corte, fino alle villette autonome.

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Un terzo ampliamento urbanistico di Colleferro si realizzò dopo la Seconda Guerra Mondiale, negli anni ’50, ancora seguendo un piano tracciato dall’ingegner Morandi. La BPD tuttavia si stava avviando alla conclusione della sua storia, terminata ufficialmente nel 1968 con l’acquisto da parte della SNIA di Milano. Colleferro perdeva così la fabbrica che era stata il motore primo della sua nascita e del suo travolgente sviluppo. Ma la vocazione industriale si era ormai incuneata nel territorio e ancora al tempo presente i è impossibile non percepire Colleferro come un centro primariamente dedito all’attività del settore secondario. Il testimone della BPD fu infatti raccolto da un’altra azienda, la Italcementi, che nel 1972 rilevò gli impianti per la produzione di calce e cemento installati fin dal 1919 dalla azienda di Parodi-Delfino. Il gigantesco impianto produttivo oggi domina prepotentemente il paesaggio colleferrino, imponendosi alla vista di chiunque voglia entrare in città. Percorrendo il cavalcavia che unisce lo scalo ferroviario al centro e che costeggia lo stabilimento nella sua interezza, sembra quasi di poter guardare nell’anima stessa della fabbrica, un’anima fatta di acciaio e cemento armato. Con tutto il rispetto possibile per un monumento importante per la comunità come la chiesa di Santa Barbara, non c’è alcun dubbio su quale sia l’autentica “cattedrale” di Colleferro, quale il vero cuore di questa città forgiata dal lavoro e dal sudore dei suoi operai.

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Sebbene possa non risultare gradevole come una gita in uno dei più tradizionali borghi laziali, una visita a Colleferro può insomma aprire il sipario su una realtà dalla storia affascinante, la cui diversità rispetto al paesaggio umano e naturale prevalente nella regione non deve per forza essere letta come un elemento di debolezza, ma anzi come un indice di ricchezza e complessità. Troppo spesso tendiamo a interpretare i luoghi destinati univocamente alla produzione industriale come spazi sacrificati al dio della meccanica e del progresso, naturalmente privi o privati di bellezza, non meritevoli di interesse o di uno sguardo attento. Magari è semplicemente così, ma certe volte quello sguardo, se focalizzato nella maniera corretta, può svelare storie di passione, cultura, progettualità e sogni, quelle stesse forze che continuamente danno forma e senso al mondo in cui viviamo.