“Tu mi uccidi. Tu mi fai del bene”. L'apocalisse dell'amore a Hiroshima

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Pellicola fra le più importanti e sconvolgenti mai realizzate, Hiroshima Mon Amour (1959) è un vero monumento, atemporale nella sua eterna modernità, un capolavoro figlio del genio di Alain Resnais e Marguerite Duras. Questo dramma – è dire poco –, questa apocalisse interiore ed esteriore, dei sentimenti e della guerra, è qualcosa che ha fatto storia e ridefinito completamente gli standard del cinema, spalancando delle possibilità prima inimmaginabili. Si era mai arrivati così al limite nella rappresentazione dell’amore? Un fatto tanto terribile e destabilizzante, di una vastità tale da mettere in discussione l’equilibrio psichico della persona che l’ha generato, messo al mondo come una bomba destinata a sterminare una città il cui nome resterà per sempre impresso nelle menti come sinonimo di morte.   

La trama è nota, ma la sintetizziamo brevemente. Una donna francese (Emmanuelle Riva) si trova a girare un film sulla pace a Hiroshima. Lei non ha nome, come presto non l’avrà neanche lui quando lo vedremo. È giunto l’ultimo giorno delle riprese, manca poco al suo ritorno in Francia, e vive con un giapponese incontrato in circostanze casuali una storia dalla brevità e dalla potenza fulminante. Lui ha i tratti occidentalizzati, fa l’ingegnere e parla bene il francese. Quello che sembra solo un semplice incontro extraconiugale (entrambi sono sposati) diviene presto molto altro, qualcosa di più perturbante e problematico. Emerge, anzi, esplode il trauma che si fomenta dentro di lei: vedendo l’amante nudo sul letto inizia a ricordarsi della sua tragica storia d’amore con un soldato tedesco vissuta nella sua giovinezza. Accade a Nevers, durante la seconda guerra mondiale, e finisce con la morte di lui e l’umiliazione di lei, prima rinchiusa nella cantina dalla famiglia e poi esiliata a Parigi. È una traditrice agli occhi della comunità, e ha subito l’orrendo castigo di essere rasata in pubblica piazza, ma la sua sofferenza è troppo profonda, e subisce i continui affronti impassibile eppure pazza, pazza di cattiveria come dirà lei stessa, con un alienato senso di distacco e la folle lucidità che contraddistingue tutti i dolori autentici. Questa storia, sepolta ma mortalmente viva, scopre a Hiroshima la forza del suo risveglio.

Ecco uno dei tanti momenti intesi del film: vediamo i corpi “intatti e lisci” dei due amanti (come li voleva Marguerite Duras) colti in un amplesso che fa presto spazio a una scena urbana dove la coppia è come dissolta fra le strade di Hiroshima, che percorriamo e attraverso cui ci perdiamo. Unica traccia umana di questo percorso di perdizione, la voce di Emanuelle Riva, che commenta con significative parole lo scenario interiore che si dipana in queste sequenze così toccanti. Ascoltiamo.

 

... Je te rencontre.

Je me souviens de toi.

Qui es-tu ?

Tu me tues.

Tu me fais du bien.

Comment me serais-je doutée que cette ville était faite à la taille de l'amour ?

Comment me serais-je doutée que tu étais fait à la taille de mon corps même ?

Tu me plais. Quel événement. Tu me plais.

Quelle lenteur tout à coup.

Quelle douceur.

Tu ne peux pas savoir.

Tu me tues.

Tu me fais du bien.

Tu me tues.

Tu me fais du bien.

J'ai le temps.

Je t'en prie.

Dévore-moi.

Déforme-moi jusqu'à la laideur.

Pourquoi pas toi ?

Pourquoi pas toi dans cette ville et dans cette nuit pareille aux autres au point de s'y méprendre ?

Je t'en prie...

 “Io ti incontro e mi ricordo di te”

Che si stia verificando uno strano processo di fusione fra l’amante giapponese e il soldato tedesco ucciso? In una scena all’inizio del film vediamo la schiena del primo dormiente evocare nel subconscio di lei la posa del secondo agonizzante, morto a Nevers sul lungofiume. Due sequenze che si scontrano, traumatiche. No, le analogie fra questi due uomini non fanno altro che provocare la dolorosa consapevolezza della morte del suo primo grande amore, un amore la cui onda d’urto l’ha resa la donna distrutta che è adesso. Allora cosa succede? In questo delirio che passa fra le strade, le pieghe della città ricostruita e che si fonda sulle atroci sofferenze passate, indicibili (“Tu non hai mai visto niente a Hiroshima” è il ritornello che ripete lui nel rimarcare l’impossibilità di parlare della tragedia senza nome che ha cambiato il mondo), succede che non sono i due uomini a fondersi, ma il suo dramma privato a unirsi e confondersi con quello collettivo di una città e di una civiltà che ha scoperto un nuovo volto dell’orrore. Il dramma della donna senza nome è che non riesce mai a morire veramente nonostante non sia più completamente parte nel mondo dei vivi. Scrive Marguerite Duras:

“Lei sa che non si muore d’amore. Durante la sua vita, ha avuto una splendida occasione per morire d’amore. Lei non è morta a Nevers (…) Non è il fatto che l’abbiamo rasata e disonorata che segna la sua vita, bensì il fallimento in questione: lei non è morta d’amore il 2 agosto 1944 su quel lungofiume. (…) il racconto che fa di questa possibilità perdita la trasporta letteralmente al di fuori di sé e la spinge verso un nuovo uomo”

“Tu mi uccidi. Tu mi fai del bene”

La studiosa Julia Kristeva in Marguerite Duras ou L'apocalypse blanche (in Soeil Noir, 1987) parla a proposito dell’amore della donna senza nome di una passione necrofila per la morte, avendo fatto del suo corpo (non)vivente la cripta abitata di un qualcosa che non appartiene più a questo mondo. È una vera ossessione quella che non le permette né di vivere né di morire, ma di amare di un amore impossibile (attraverso il soldato tedesco) l’amore stesso. Insostenibile, è la parola perfetta per definire tutto questo. Nella sua sceneggiatura, infatti, Marguerite Duras non propone nessuna catarsi alla vicenda, che si conclude in una sorta di oblio, un’eclissi affatto risolutiva. La sofferenza resta senza riscatto, e allora ripensiamo, riguardiamo la sequenza che vede Emmauelle Riva, quasi uno zombie, vagare fra le strade insonni di Hiroshima come in un cimitero, immergiamoci ancora nel fascino letale di questo film che non concede riposo, lasciamoci catturare dall’enigma di un desiderio che ha il nome della morte ma brucia come la passione. Hiroshima, città dell’amore.