L'Amletico

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Viterbo: tra visibile e invisibile

Qualche domenica fa ho avuto la bella occasione di partecipare al contest fotografico Tuscia TakeaPic, un concorso organizzato dall’associazione culturale Not Equal. Una iniziativa ammirevole, in cui la fotografia cessa per una volta di essere concepita solo come strumento meccanico a portata di smartphone, pronto ad alimentare il predatorio consumo delle immagini da social, per ritornare ad attività di lenta, meditata e profonda osservazione dell’esistente. 

Arrivato sotto il portico del Palazzo dei Priori nella centralissima Piazza del Plebiscito sono stato accolto dallo staff che mi ha consegnato, insieme ad alcuni sempre apprezzabili gadgets, un foglietto col tema scelto per la “Sezione Pro”, nella quale ero stato ammesso per un chiaro errore del costumista. Ho ringraziato, mi sono allontanato e ho dispiegato il foglio per accedere al suo succoso contenuto.

Tema prescelto: Visibile/Invisibile. Tempo a disposizione: fino alle ore 24 del giorno stesso. Confini geografici entro cui realizzare le foto: le mura del centro storico di Viterbo. Numero di scatti da sottoporre alla giuria per singolo partecipante: uno. Reazione di getto del sottoscritto: “grazie di tutto, è stato bello, io me ne torno a Roma”. Per fortuna sono rimasto, ho invocato lo spirito di Eugene Atget affinchè mi accompagnasse nell’impresa e mi sono inoltrato tra i vicoli viterbesi. Ma mentre il nume tutelare della fotografia dello scorcio urbano sembrava sordo alle mie richieste d’aiuto infra-dimensionali, per fortuna una mano decisiva sembrava arrivare dalla stessa Viterbo. 

Piano piano, infatti, riuscivo a comprendere quanto la scelta operata dagli organizzatori non fosse affatto casuale. Il visibile e l’invisibile, lungi dall’essere due paroloni da accostare poeticamente per ottenere un accattivante tema buono per qualsiasi città del mondo, trovavano proprio in Viterbo una loro declinazione del tutto particolare, che era solo necessario far emergere a suon di scatto.

Per cominciare, potremmo riflettere con un pizzico di attenzione su quello che è l’elemento più peculiare dell’architettura residenziale viterbese del Medioevo, il profferlo. Con la parola profferlo si identifica la scala, genericamente a una sola rampa, che corre in senso parallelo sulle facciate degli edifici viterbesi di origine medievale, soprattutto in quelli che si trovano nei deliziosi e intatti quartieri di San Pellegrino e Pianoscarano. Il profferlo è dunque in buona sostanza un’estroflessione di un elemento architettonico, la scala, che solitamente è posta all’interno degli edifici, nascosta dal portone di accesso. Quale esempio più chiaro di un qualcosa di normalmente invisibile che diventa, nell’unicità del contesto viterbese, visibile? 

Ma non finisce qui; nel disegnare la sua traiettoria diagonale sulle facciate delle case, il profferlo si appoggia su un solido mezz’arco che racchiude in sé un ingresso che un tempo poteva condurre a una bottega, una cantina, o anche una stalla. Nelle giornate di sole, mentre le scalinate dei profferli vengono colpite dai raggi dorati, nei mezz’archi sottostanti si proiettano dei veri e propri gusci di ombra che avvolgono dolcemente porte, piante, biciclette e quant’altro vi sia collocato al di sotto. Nel netto contrasto tra ombra e luce che così si viene a creare, ecco servita un’altra buona occasione per cogliere la dialettica tra visibile e invisibile.

La sequenza di archi, gallerie, vicoli e irregolari quinte visuali che struttura i quartieri medievali (frutto di attente politiche di conservazione e restauro poste in atto a partire dalla metà dell’Ottocento, in concomitanza con l’inclusione sempre più stabile di Viterbo negli itinerari del tradizionale viaggio in Italia di letterati e artisti) si apre in rare piazze, la più importante delle quali è senza dubbio Piazza San Lorenzo. Cuore della storia politica e religiosa di Viterbo, la piazza ospita la Cattedrale, dedicata appunto all’arcidiacono Lorenzo, e l’imponente Palazzo dei Papi, il monumento più conosciuto della città. Proprio l’architettura di questo palazzo ci offre un altro spunto per la nostra riflessione.

Guardando la facciata che si allunga sulla piazza, sembra infatti di poter cogliere molto bene una doppia anima: da un lato abbiamo la mole imponente del palazzo vero e proprio, le mura possenti che incarnano il potere terreno dei pontefici, spostatisi da Roma a Viterbo in pianta stabile dal 1254 al 1281. Dall’altro l’aerea loggetta delle Benedizioni, caratterizzata dall’indimenticabile sequenza di arcatelle trilobate su slanciate colonnine binate, delimitante una sorta di terrazza aperta panoramicamente sulla retrostante Valle di Faul, il cuore verde di Viterbo.

Se da una parte dunque il solido volume del palazzo comunica un’idea di impenetrabilità (proprio qui d’altronde si tenne un Conclave record per la sua lunghezza, ben 1006 giorni di chiusura e segretezza per i cardinali partecipanti), questa sensazione è subito smentita dalla Loggia, un inno alla leggerezza dell’architettura e alla permeabilità dello sguardo. 

Se nel Palazzo dei Papi la dialettica visibile/invisibile si dispiega in senso orizzontale, altrove questo rapporto si articola secondo direttrici spaziali diverse. Sotto le pareti esterne intonacate del Seminario Arcivescovile, ad esempio, all’angolo tra Piazza San Lorenzo e l’omonima via, spiccano grandi blocchi parallelepipedi in tufo, polverosi resti della cinta delle mura urbiche di età etrusca. Nella stessa via, nel tratto tra le due graziose piazze della Morte e del Gesù, un caseggiato ottocentesco è sorto grazie al tamponamento integrale di un portico medievale; le colonne e le membrature dell’antica struttura sono ancora visibili, anche se ormai, del tutto spogliate della loro tridimensionalità, appaiono quasi incise sull’intonaco grigio.

Due differenti palinsesti, uno articolato in altezza, l’altro in profondità, che rendono concreto e visibile sul corpo vivo delle architetture un processo che nella maggior parte dei casi non è dato registrare per via della sua intangibilità, il trascorrere del tempo: la Viterbo etrusca e quella medievale riaffiorano nel tessuto della città contemporanea, germinata e cresciuta sopra di esse.

Ma se il passato a volte è nascosto, nondimeno celato ai nostri occhi e alla nostra conoscenza è il futuro. Eppure Viterbo è capace di schiudere una porta anche su questa dimensione. Il cronista del XIV secolo Giovanni Juzzo da Coveluzzo afferma che nel 1379 in città fu introdotto dal Vicino Oriente un gioco di carte chiamato “Naib”. Dietro questo nome oscuro, c’è chi ha voluto vedere uno dei primi esempi di mazzo di tarocchi attestato nella penisola italiana.

Nel cuore del quartiere di San Pellegrino si trova il colorato laboratorio di Cinzia Chiulli, l’artista che, partendo da questa notizia storica, ha rivisitato i 22 classici arcani del mazzo dei Tarocchi ispirandosi alla storia della città e del territorio di Viterbo. Le sue carte in salsa viterbese, che si impossessano dello spazio urbano tutto attorno alla bottega, sono un libro muto in grado, per coloro che credono nel potere della divinazione, di aprire brecce verso un mondo sconosciuto e invisibile.

Potrebbe bastare quanto detto finora, ma Viterbo non smette di stupire. Forse conoscerete molte città che possono vantare monumenti patrimonio Unesco; ma quante di loro possono invece dichiarare di essere interessate da un Patrimonio Immateriale dell’Umanità? La Festa patronale di Santa Rosa, celebrata ogni 3 settembre a Viterbo con la sfilata della monumentale macchina per le vie del centro storico illuminato, è infatti compresa tra le “Feste delle grandi macchine a spalla” che costituiscono un importante patrimonio “immateriale” italiano riconosciuto dall’Unesco.

Il 3 settembre la Macchina di Santa Rosa è percepibile in tutta la sua materialità (basta chiedere ai “facchini” incaricati a costo di grandi fatiche), ma se si visita Viterbo nel resto dell’anno, la macchina scompare, diventa immateriale e invisibile, ma continua a esistere nel patrimonio di memorie e tradizioni dei viterbesi, così come nei numerosi indizi disseminati per le strade, dalle targhe, alle foto nei ristoranti, al museo che racconta la storia di questa meravigliosa festa.

Una città dunque, Viterbo, che vive in bilico tra il visibile e l’invisibile. E se ne era forse accorto anche il grande poeta Mario Luzi, in una delle sue prose di viaggio, dove Viterbo viene sdoppiata tra una dimensione materiale, fatta di edifici materiali e reali, e una invisibile e psicologica, costituita dai palazzi della mente e della memoria : “La cinta quasi intatta delle sue mura con inserite le torri e le absidi di alcune chiese, e da esse l’emergere delle cupole e di altre torri più affilate sparse nei colli interni dell’abitato corrispondono così intimamente al fantasma di città che la mente si rappresenta nelle solitudini da lasciare per un momento incerti non si tratti di un luminoso inganno”.