L'Amletico

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Viaggio al termine dell’onirico: le immagini digitali di Martina Scala

Materiali fluidi che simulano elementi naturali decontestualizzati in uno spazio frammentato

Artista, fotografa, illustratrice attiva a Milano, Martina Scala esplora nella sua ricerca un mondo fatto di invisibilità e oscurità, fra immagini distopiche e linguaggi sabotati. Passando dal mondo delle immagini “hacker” a quello dell’editoria indipendente, dove si sta specializzando, il suo percroso artistico esplora i continenti emersi della violenza, del cyberbullismo, dell’esoterismo dark, e delle ossessioni contemporanee: in primis, quella per il cibo. Dopo questo breve tour introduttivo, entriamo nel mondo sintetico e lisergico delle sue creazioni.

Iniziamo con una domanda scontata: la tua formazione.

Ho studiato all’istituto d’arte di Sorrento metalli e oreficeria. Successivamente mi sono iscritta all’Accademia Belle Arti di Napoli, per poi frequentare un corso allo IED e un master di fotografia alla Naba. Ho vissuto dunque in questi anni fra Napoli, Roma, e Milano. Ma prossimamente tornerò a Roma per fare uno stage presso Yogurt Magazine, che ha sede nel quartiere di San Lorenzo.

Nei tuoi lavori si vede una riflessione molto stratificata e profonda sul valore che le immagini assumono a partire dal postmodernismo, quando si assiste a un vero e porprio trionfo del loro statuto. Un valore che diventata sempre più fagicitante, che assorbe il testo, perfino la realtà... la comunicazione stessa si fa immagine, ma tutto questo è molto pericoloso. I tuoi lavori, che hanno qualcosa di cupo, nero, consrvando qualcoscosa di ironico, sembra ci ricordando di questo retroscena oscuro. Quindi ti chiedo di raccontarci come ti sei approcciata all’arte.

Ho iniziato approcciandomi al disegno e alla pittura.  Presto, però, sono passata dai mezzi analogici a quelli digitali. Ho capito che era con questi che potevo esprimermi meglio. Li sento molto più vicini alla realtà presente rispetto ai linguaggi tradizionali. Personalmente sono molto legata alla mia esperienza del contemporaneo. Certo, ci sono riferimenti al passato nei miei lavori, ma non sono mai nostalgici. Ha svolto un ruolo importante nella mia formazione la passione per il cinema. Amo registi che hanno lavorato col grottesco e gli aspetti più crudi della realtà come Gaspar Noé. Il suo cinema crudo e psichedelico mi ispira molto. Harmony Korine, Vicent Gallo sono altri due nomi che mi vengono in mente. Ma sono legata anche a film più “classici” come American History X: film che è tutt’altro che un classico superato.

Quindi il tuo è un lavoro fenomenologico: rifletti su come noi, attraverso il mezzo prostetico della tecnologia, esperiamo il mondo non con la nostra totalità sensoriale, ma solo con il senso della vista. Noto, come evidenziavo anche precedentemente, un forte lavoro formale! Sembra quasi che la tua firma stia in questo approccio distopico e sabotato alla materia plastica dell’immagine, la sua grana e consistenza digitale.

Non propongo mai racconti/narrazione, però lavoro molto sullo sulla forma. Guardando il progetto si nota subito un’estetica molto precisa. Nel mixaggio/mash up di fotografie destrutturate evoco un sound che richiama quel tipo di musica con contaminazioni dubstep, ambient, acid, noise, dark. Le persone che vedono i miei lavori mi chiedono: “Come ti vengono queste allucinazioni lucide?”. Ma non è solo questione di estetica, c’entra soprattutto il linguaggio.

 

I tuoi lavori, dicevo, hanno un estetica molto riconoscibile. Guardandoli penso a certi film cyberpunk statunitensi o giapponesi, o a certe regie allucinate come quella di Kateryn Bigelow in Strange days (1995), un film che amo molto e che ritengo essere troppo trascurato. Ma tornando a te, ci diresti dove prendi ispirazione?

Il mio linguaggio è molto legato ai new media. La componente coloristica, tuttavia, deriva dai miei studi pittorici. L’espressionismo tedesco ha gioco molto in questo senso. Da lì ho tratto la mia passione per i colori acidi e discordanti. Ma anche la composizione e le questioni tecnica che ho appreso durante i miei anni di accademia hanno strutturato il mio lavoro attuale. Senza una lunga formazione tecnica e “tradizionale”, lavorare direttamente col digitale è rischioso, perché il rischio è quello di fare uscire fuori un lavoro superficiale. Programmi di elaborazione digitale come photoshop sono intuitivi, e quindi sono alla portata di tutti. Il digitale oggi si è trasformato in un pensiero retorico: è semplice e accessibile, e da una parte questo è positivo. Ma non si sfugge al pericolo dell’omologazione. Filtri e colori oggi sono già prestabiliti, e senza una buona dose di consapevolezza formale non si capisce se sei tu a creare le cose oppure è il software.

Invece con un altro progetto, Change your life (2020) sei andata a esplorare gli aspetti più reconditi del Deep web. I lavori della New Media Art si interessano a questo campo, e di solito si muovo in maniera audace con l’uso di dispositivi tecnologici modificati o sorta di pseudo-videogiochi sabotati, o anche realizzano opere di net art, ma tu hai deciso di utilizzare due media più tradizionali: il video e l’immagine. Trovo la scelta interessante, specie se rapportiamo questo discorso con le affermazioni che facevi precedentemente rispetto la tua formazione accademica. Ci racconti la genesi di questo progetto, e come lo intendi a parole tue?

Ho iniziato il lavoro intendendolo come un’indagine su cosa resta dell’invisibilità oggi. Ho indagato il deep web, in particolare esplorando la sottocategoria del dark web. Tuttavia questo mondo virtuale non lo si può certo definire invisibile, è piuttosto occulto. Entrando all’interno di questo spazio ho visualizzato i suoi contenuti registrando un video, testimonianza dell’elaborazione personale di questa mia esperienza. In questo progetto non presento nulla di “originale”, ma solo, appunto, l’elaborazione e la rimediazione di tutto quello che ho trovato lì dento di interessante. Ho proposto una selezione di oggetti cercando di camuffarli per renderli “ibridi”, nascondendo così la loro origine. Questa è la forma con la quale gli oggetti vengono spediti e ricevuti, come dei simulacri. Anche all’interno del dark web troviamo immagini che non hanno un rapporto diretto con l’oggetto effettivo ma a cui vengono affiancate diciture convenzionali.

Adesso una domanda un po’ astratta: quanto sei padrona di quello che crei? E quanto invece quando lavori c’è qualcosa che sfugge al tuo controllo. Io nei tuoi lavori vedo un oscillazione fra il controllo formale e come il disfacimento della materia virtuale, che si sgrana come in una proliferazione di pixel debordanti, rumorosi, sporchi.

Ho trovato un punto di equilibrio fra due filosofie, fra organizzazione e disorganizzazione. Parto di base con un’idea chiara, e poi c’è anche una forte componente istintuale. Avere esattamente l’idea di come iniziare/finire un lavoro non è una strategia vincente. Non sto dicendo di improvvisare senza alcuna preparazione, senza avere la minima idea di come procedere. È importante partire con delle domande, senza dover trovare necessariamente delle risposte.

Adesso ti faccio una domanda più “personale”: nella tua vita professionale, quali esperienze hanno influito sulla tua identità di artista?

Un’esperienza molto formativa è stata aver visitato spesso New York, città ricca di cliché ma anche di cose inaspettate. Dal punto di vista umano mi sono sentita molto coinvolta. Dal punto di vista artistico, invece, si tratta chiaramente di una città molto predisposta all’arte contemporanea. Lì, non si vive nel passato, ma nel presente e ci si proietta nel futuro. Un quartiere che ho amato molto è Bushwick, a Brooklyn. Non è posto turistico con luoghi belli e peculiari, ma ci sono molti street artist che interagiscono con il territorio, ridefinendolo e rivalutandolo. Ma allo stesso tempo lì si può toccare con mano la decadenza della storia del posto. Molti altri quartieri di Brooklyn invece sono diventati più artistici e ricchi, perdendo però molto in termini di autenticità. Anche Bushwick sta evolvendo, ma la popolazione resta medio-povera.

                                                                                                         

Abbiamo parlato molto della tua arte, ma adesso vorrei che ci dicessi quali artisti ti ispirano, sia dell’oggi che del passato.

La forma per me è la cosa più importante. Fra i moderni, la sintesi compiuta da Piero della Francesca secondo me è assolutamente contemporanea. La madonna della misericordia è una delle mie opere preferite. La madonna di Senigallia, invece, mostra come la forma può dire tutto senza essere distrutta dal pathos.

Se devo parlare di artisti viventi, invece, penso soprattutto a Erik Kessels. Soprattutto perché oggi un artista contemporaneo deve lavorare su più linguaggi, non perdendo tuttavia la propria identità, traducendola piuttosto. Secondo me, lui riesce a restare se stesso utilizzando ogni medium, lavorando anche in contesti molto diversi. Poi altri nomi… penso a Andrea Samory, artista italiano che opera in Giappone. I riferimenti alla cultura giapponese da lui proposti mi ispirano tantissimo, come attraverso le scelte cromatiche. La cultura orientale nei suoi lavori emerge con tutta la radicalità di un mondo altro. Gli aspetti legati alla comunicazione, inoltre, non sono standard, e c’è una forte ibridazione dei linguaggi che mi attrae tantissimo. Questo immaginario è molto vicino alla sensibilità dei miei lavori recenti. Poi altri nomi che mi vengono in mente sono Matthew Barney, Mike Kelley, Andreas Gursky, e Robert Gligorov.